“…un’opera di narrativa sui generis, non facilmente ascrivibile ai codificati  sottogeneri o filoni del romanzo, un fiore non catalogato, che comunque emana profumo” (dalla Prefazione al romanzo, a cura di Amato Maria Bernabei). Il libro sarà presentato oggi  a Roma, Beba do Samba, Via dei Messapi 8, alle ore 19,00.

“Quel che restava del campo di grano dopo la mietitura erano sterpi secchi e odore di paglia al sole e di papaveri appassiti. Cessato il frastuono dei mietitori, era quasi il tramonto, Messidoro tornò sulla sommità della collina che, spogliata delle alte spighe, mostrava i propri fianchi rasi e, in basso, la strada che si stendeva lungo il fiume e poi spariva dietro la curva dell’ansa. Se anche aveva capito il gioco delle stagioni e il ciclo delle piante, come era accaduto nelle precedenti estati le messi che s’aprivano e richiudevano al suo passaggio gli mancavano già. Peccato, gli sarebbe bastata un’altra primavera per pareggiare i conti e avere risarcimento dalla campagna verde smeraldo. Era la fine di luglio del milleottocentotredici e Messidoro aspettava ancora. Tuttavia continuava a vivere e con l’incoercibile abbandono al movimento proprio dei predatori, drizzò le orecchie e tese la coda quando sentì frullare le ali della cornacchia e la scorse nel campo. Si lanciò quindi nel velleitario inseguimento, ma lui nemmeno s’era mosso che l’uccello lo guardava già da sopra al melo…” (da Cronache della città capovolta, di Adele Costanzo).

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PREFAZIONE

                Adele Costanzo scrive.

                Un’ovvietà? Lo sarebbe, se non vivessimo nel tempo della “non scrittura”.

                Questo è il tempo della “letteratura mediatica”, di quella che fonda il suo prodotto “artistico” sulla visibilità, sul successo, sulla popolarità, cioè sulla presumibile vasta area di mercato su cui il consacrando pennaiolo può fare affidamento, e che fa convergere su di lui le attenzioni degli editori-imprenditori, sempre più negozianti di congerie, sempre meno custodi del talento e dell’arte.

                Questo è il tempo dei prestanome non per rinuncia, ma per appropriazione, di chi scrive senza scrivere, affidando ad altri il compito di farlo, che almeno diano una veste non incolta alla sua impotenza di letterato: chiunque, per qualunque motivo, balzi sul proscenio della notorietà, è per ciò stesso potenziale scrittore, mentre ogni scrittore vero senza ribalta, è quasi sempre condannato a vivere nell’ombra, a non vedere illuminato e premiato il proprio ingegno.

                Adele Costanzo scrive. E traduce in arte la scrittura.

                E come ogni schietto artista dà forme nuove anche alle cose che appaiono più viete, perché l’arte è sempre in grado di rigenerare il già nato. E quando lo fa, diventa poesia.

                Perfino la vita di un cane, allora, può palpitare, umanizzarsi, restituire così emozioni umane:

                “Si sposò molte volte nelle vigne, rosicchiò radici di malva, si rotolò nell’erba, rincorse gatti e galline con alterna fortuna, dormì vicino al fuoco, nuotò nella Mosella con i bambini della città bassa e si scrollò il pelo corto e marrone per ogni goccia d’acqua di pioggia o di fiume, di fango, di bava o di rugiada che lo bagnò”.

                Perfino la vita di un cane diventa idillio.

                E che dire delle preziose descrizioni, in cui magari un corso di fiume sembra scendere per un’avventura da raccontare, o come già narrasse a chi legge il suo cammino intriso di poetica meraviglia? forse quella stessa della vita che vive, scorrendo…

                “La Mosella è fatta d’acqua inquieta, assetata di terre e di città, curiosa. Non ha fretta… S’insinua tra colline digradanti dove bagna il riflesso delle cose che sceglie di visitare o che trova per caso. Quando il suo destino di fiume giunge a compimento, affida ciò che le resta del profumo dei ciliegi, dell’aroma del vino, degli odori delle terre e delle vite che ha lambito al possente Reno, prima di perdersi e  smemorarsi in esso”.

                Qui poco importa che il fiume nasconda altro scenario, di desolazione e di morte; magari lo prepara per contrasto, perché meglio l’esistenza abbia rilievo nei suoi chiaroscuri, nelle pieghe ridenti e nei risvolti amari.

                La Mosella, elemento naturale e compagna di percorso, sembra discendere dagli aforismi di Eraclito, consapevole che bagnerà, ogni volta con acque diverse, cose ogni volta diverse. Come emblema stesso del mutamento, connaturato all’effimero, ha una presenza dominante, e scandisce con il suo flusso, con i suoi tremolii, con le sue accensioni e le sue calme, con i suoi impeti inarginabili, la sostanza del tempo e della vita, che ininterrottamente, attraverso inesauribili orologi rotti, “consegna all’immobile eternità  il minuto e l’ora”. Non a caso, la Mosella, capovolgendo nel suo specchio una realtà già dissimulata da un velo fiabesco, evoca in aggiunta un desiderio di rovesciamento di modelli non più proponibili o non a misura, esprime il sovvertimento delle idee operato dalla novella illuministica, ne suggerisce la precarietà, dimensiona infine l’evanescenza di una concretezza immaginata, che qualunque turbamento dell’acqua scompone.  Del resto a Mensuria “tutto ciò che nasce e vive ha radici nell’aria e prima o poi la Mosella se lo porta via”.

                 Mensuria. Città quasi sempre irrealmente vera, riflessa nell’acqua, o sospesa e “sprovvista di fondamenta”, “paese di confine”, “incostante zolla di terra”, realisticamente cruda, però, nella sua scansione di alta e bassa, specchio delle troppe distinzioni che dividono la ricchezza dalla miseria, il benessere dagli stenti, e finanche la buona sorte dalla iattura. Mensuria non è una città: è “la città” che accoglie “cronache” di vita, le infinite-ridotte possibilità in cui l’umana esistenza si avvera, illimitate nella pluralità delle sfumature soggettive, enumerabili nelle specie; sicché i protagonisti delle vicende non sono più vólti, ma categorie, e nelle categorie il ripetersi di orditi esistenziali, solo in apparenza dissimili.  Mensuria è la città dove l’individualità si generalizza, diventa tipologia, e parametro, “mensura”, ed accosta gli uomini, fra loro ben meno distanti di quanto certi sdegnosi arroccamenti  sembrerebbero annunciare.

                Per una sorta di comprensibile magia, perciò, ognuno può riconoscersi in qualche protagonista del romanzo, o perfino in tutti, in forza del replicarsi delle esperienze, in ragione cioè di quegli umani accadimenti che non possono essere che condivisi, e tuttavia sono per ciascuno esclusivi e ciascuno esperisce in modo inconfrontabile. Quelli delle “Cronache” sono personaggi oltre lo spazio ed il tempo, anche se ritagliati e dimensionati nel tempo e nello spazio; si muovono di spalle alle quinte della Storia, perfettamente sulla scena, ma come estranei allo scenario, che è non solo, ma pure, genuina cornice. Sembrano stilizzati, e tuttavia sono dettagliati, non hanno nome, e vestono precise identità; in tratti quasi finti, sono tuttavia sobriamente sinceri, avendo della favola l’indeterminatezza della collocazione e l’improbabilità, della realtà effettiva la piena umanità: figure, insomma, concretamente immateriali. Si tratti perciò del Sarto, che può confezionare vestiti per ogni stagione, anche per quelle della Politica e del Potere, e si sottrae per questo a qualunque intemperie, alle rivoluzioni del Pianeta come a quelle della Storia; oppure del Filosofo, che riflette sull’uomo e sulla vita, saggio e poeta che non verrà mai a capo della sua arte, pur convinto di sopravvivere nel nome di una strada, o di una piazza, o di una scuola, essi si muovono e sono mossi, da una mano sorridente che comprende da vicino il loro dramma di vivere e lo mitiga, nel modo in cui un acquerello delicatamente stinge i colori decisi, sognandoli.

                Le storie, di conseguenza, sono le storie solite e non sono le solite storie, anche perché tutto ciò che è detto in maniera inattesa non può apparire consueto. Non c’è commento che restituisca i modi imprevisti, le espressioni liriche spesso nell’aspetto di paragoni illuminanti, la favola adulta che conserva la freschezza e lo stupore delle prime avventure fantastiche, vissute lungo il filo di una voce narrante. Del resto come ridire in modo più chiaro – tanto meno più artistico -, certe cose che solo la forma originaria può ripetere per sempre con la sua irripetibile intensità? Come rendere i trapassi, le inversioni del tempo, le pause e le riprese, le sentenze, le folgorazioni poetiche di uno stile complesso e personalissimo che non è semplice foggia, ma sostanza stessa di una bellissima prosa? essenza stessa della narrazione? Un modo da cui scaturiscono racconti nel racconto, episodi spesso conchiusi ed insieme segmenti necessari di una ben più ampia trama, insolita, tessuta attraverso una pluralità di tele che reciprocamente si richiamano, si invitano, si integrano, come battiti di vite distinte che pure cadenzano una sola vita, ricca ed articolata: quella della Città Capovolta, quella di ogni agglomerato di ogni tempo, quella dell’umanità intera, nelle sue ombre e nelle sue luci, nei suoi drammi e nelle sue gioie, nelle sue speranze e nelle sue disperazioni, nelle sue sconfitte e nei suoi trionfi, nelle sue albe e nei suoi tramonti. Sicché le “Cronache”, alla fine, sono spicchi di un’arancia, ognuno, come l’altro, gustoso, ognuno in apparenza frammento, ognuno indispensabile elemento dell’insieme; o sono battute insostituibili, o respiri, o movimenti di un brano musicale compiuto.

                Storie come sempre legate ai limpidi o fangosi umani sentimenti, agli aspetti che li suscitano, ai comportamenti che ne dipendono.

                L’amore, vissuto come istinto prepotente che finisce per verificare “l’incongruenza fra causa ed effetto”, mai oggetto, però, di lubrica esposizione (quella che una malintesa istanza di realismo invece asseconda), più volentieri còlto come incanto delicato, “col tocco lieve delle carezze sotto le vesti ruvide. Per lui le prime al profumo delle viole; le prime per lei: semplicemente”. L’amore imprevedibilmente sublimato, richiesto in forma commossa di principio assoluto e di assoluta poesia: “Parlami del mare, disse lei”. E l’amore che sbiadisce in quotidiana routine, “nel silenzio delle cose non dette e delle carezze sempre più svogliate”. In ogni caso l’amore che va e torna, perfetto ed ultimo fino alla perfezione del successivo, cui lascia frettolosamente il testimone nella “Taverna dell’eterno ritorno”. 

                La bellezza, come trionfo dell’armonia, dote preziosa della natura, o più venalmente “patrimonio di famiglia”: “Non dare niente senza una caparra!”.

                L’avidità, il ricatto, di chi sa – ed esporrebbe al pubblico ludibrio, pregiudicando una carriera -, e sordidamente pretende molto più di qualcosa, per il silenzio. E poi paga il frettoloso acquisto con il timore insonne di perderlo altrettanto rapidamente.

                La libertà rivendicata dal pensiero, che svincola perfino dalla reclusione.

                La candida saggezza della conoscenza pratica, che talvolta presume, per una sovrastimata consapevolezza dell’esperienza vissuta, maestra di norme definitive, e magari “aspetta aspetta” inacetisce il vino; o la sapienza ugualmente illusoria distribuita dalla conoscenza teorica: “Voi che avete letto tanto forse sapete dirmi…”.

                La profondità elementare della voce del popolo, per cui due gemelli “sono come la mia faccia e il suo riflesso dentro la tinozza” per la nonna Lavandaia; o “come le due parti di una noce” nell’ottica della Levatrice.

                La scarsa indulgenza del pettegolezzo femminile, “senza benevolenza né solidarietà”.

                Lo strazio dei distacchi irreversibili, che la natura umana può esorcizzare nei gesti della ripetitività quotidiana, ma che culmina nella fine di un cane, apice di scrittura che interroga la morte stessa sull’assurdità della morte, “in uno di quei campi… dove soffiano venti da cui non occorre cercar riparo”, nell’allusione perfino gentilmente sarcastica alle “dimensioni parallele”, nelle quali “perdersi di vista è cosa assai probabile”. Lo spietato ciclo saprà recuperare in apparenze diverse gli stessi elementi aggregati per le forme che estingue: del sepolto Messidoro “ne sarà pane e papaveri… e miele”.

                Il sentimento dello spazio avvertito come “ostile morfologia dell’assenza”, che l’uomo vanamente “esorcizza” come un ragno, “sciogliendo ed intessendo fili”, senza avere del ragno, però, “la leggerezza e la vischiosità”.

                Il timore delle cose che cambiano e il rassicurante ripiegarsi sul proprio “elemento”, magari nient’altro che un’ossessione burocratica, la cui ostinata velleità sembra corrispondere all’impossibilità stessa di assegnare consistenza ad una realtà che cerca “la conferma dell’ombra”, nella dimensione della materia come in quella dell’intelletto.

                Infine la misurata illusione di dilatare il respiro della vita, nell’espediente che corregge la direzione del tempo attraverso la pagina che lo risale e ripropone il passato al presente, e non per richiamo.

                Su tutto, costantemente, aleggia, si insinua, serpeggia l’ironia, bonaria, solitamente, ma non senza morsi, quasi giudizio insofferente verso un’umanità che si veste di stereotipi e di occasioni, non sapendosi vivere genuinamente e nel rispetto dei canoni che l’Illuminismo va dettando. Cosicché la libertà, con il mutare delle circostanze, può trasformarsi in osservanza; le burrasche possono galleggiare sulla bonaccia in vista di un comune tornaconto; l’abitudine può annoiare se stessa nei riti che esigono rispetto: “lei non si sottrasse… com’era giusto e come da copione”; una zolla di terra può diventare un continente; e al culmine, “un alito di vapore, come un ectoplasma” può fluttuare dalla bocca di un presuntuoso Generale Prussiano quando s’apre “più del necessario a pronunciare il sì” della cerimonia nuziale: sommo grado militare su cui riderà, come su Margutte, una stupida morte.

                Nel complesso un’opera di narrativa sui generis, non facilmente ascrivibile ai codificati  sottogeneri o filoni del romanzo, un fiore non catalogato, che comunque emana profumo.

                Questo, avendo letto.

                E poiché una prefazione non è l’abito confezionato da un preconcetto, non deriva da un complesso di formule acquisite che ha trovato riscontro nell’elaborato che introduce, ma da esso consegue come sana riflessione, queste righe sono il risultato delle impressioni e delle emozioni scaturite dal leggere, ed avranno esaurito il loro compito se promuoveranno un desiderio di lettura e di confronto.

Amato Maria Bernabei

Apri e salva: Cronache: Prefazione

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