Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga
  (Francesco Petrarca)

La Nazione non è la superficie, interna a una linea di demarcazione, abitata magari da un coacervo di popoli, né il frutto di una volontà di potere che tali popoli artificiosamente aggrega in un organismo statale; essa è invece la condizione di appartenenza alla stessa etnia – unita alla coscienza e al sentimento che ne conseguono -, segnata dalla condivisione di un territorio e di una storia, distinta per comunanza di lingua, religione, costumi, usanze, tradizioni, ovvero per un proprio originale patrimonio culturale, animata per questo da un radicato spirito di coesione e di solidarietà, e insieme idonea ad esprimere o a perseguire unità e sovranità politica.

La nazione italiana esisteva, quindi, già prima che l’ideale di recupero delle sue parti smembrate promuovesse il Risorgimento e l’unificazione. Il 1861 segna infatti la nascita dell’Italia come Stato-nazione, come nazione, cioè, che finalmente riunita si dà un ordinamento giuridico e ne afferma la sovranità. 

Chi per qualunque interesse, di fittizia diversificazione o di partito, o ancor peggio per mire di potere, contesti una realtà del genere, non appare in buona fede. Così, a chi voglia pretestuosamente accampare distinzioni in base alle diverse circostanze legate ai volubili mutamenti della storia, basti ricordare come gli stessi figli e gli stessi territori del nostro ceppo originario abbiano, per mutate condizioni economiche e politiche, vissuto inversioni di ruoli e di prestigio. Le contingenze storiche poterono trasformare il grande Meridione che fioriva quando le terre del Nord erano ancora in balia della barbarie, in area di indigenza di fronte a un Settentrione oggi più civile ed opulento. Non dunque conseguenza di superiorità o di inferiorità degli attori sono certe differenze che segnano le anime di uno stesso popolo in tempi diversi della storia, ma effetti di mutate condizioni sociali, politiche, economiche.

Al di fuori di queste premesse ogni discorso sull’Unità d’Italia è puramente demagogico.

Che cosa abbiamo solennemente festeggiato il 17 marzo 2011? Il Risorgimento ha insegnato una volta ancora che le grandi identità possono interpretare grandi ruoli nella storia, le piccole individualità appena parti secondarie; che la collaborazione e la solidarietà sono la vera forza dell’uomo, i contrasti la sua debolezza.

A quelle figure sdegnose, che in occasione della celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia hanno girato il capo e le spalle, che hanno disertato gli scanni dei convegni ufficiali commemorativi, che non si sono uniti al canto di un inno discutibile quanto si voglia sul piano artistico, ma battagliero e vincente negli intenti e negli esiti, glorioso nella memoria, coltivando un’anacronistica, infondata, dannosa aspirazione al separatismo, bisognerebbe ricordare appunto che la frammentazione politica ha sempre generato debolezza (forse non a caso essi dispiegano la musica splendida del Nabucco verdiano che, mentre non ha niente da spartire con le battaglie per le rivendicazioni comunali, esprime invece, e purtroppo, la passione di un popolo perdente). Per quanto il particolarismo mecenatesco abbia permesso nel Cinquecento l’avverarsi di una grande civiltà umanistica, è pur vero che questa intanto si affermò in un contesto di congeniale condivisione di cultura e di tradizione, stimolata dai campanilismi concorrenti, ma che fu insieme la causa di un destino di sottomissione dell’Italia alla signoria della “grande entità” di turno, fosse essa la Francia, la Spagna o l’Austria.

A quelle figure sdegnose che pensano al Federalismo non come alla più alta espressione dell’unità nel riconoscimento della diversità – ricchezza incontestabile di un insieme -, della solidarietà nel rispetto dell’autonomia,  della comunanza nell’omaggio all’altrui tipica appartenenza, ma come al pretesto per godere egoisticamente dei frutti delle proprie capacità e del proprio zelo, salvo chiedere arcaicamente “aita”, nello stile di un’epoca estinta, in caso di bisogno, ci sentiamo di ricordare le parole di un “foresto”-conterraneo che essi ospitarono con orgoglio nella cittadina di Arquà, prima che l’anelito federale diventi un vero e proprio “sederalismo” (SEparatismo feDERALISMO), con una non fortuita allusione ai morbidi muscoli dei glutei che aspirano alle poltrone del potere!

Voi cui Fortuna à posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga:
poco vedete, et parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.

……


Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
Non è questo il mio nido
ove nudrito fui sí dolcemente?
Non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna et pia,
che copre l’un et l’altro mio parente?

…….

(Francesco Petrarca, Rerum vulgarium fragmenta, o Canzoniere, CXXVIII)

Tutto ciò non per “partito preso”, anzi, nel riguardo per tutte le sensate iniziative e rivendicazioni di uno schieramento che non contestiamo per preconcetto, ma sotto lo specifico aspetto trattato, per il sincero spirito di italica appartenenza che ci anima, oltre ogni retorica, come sentiamo nel sangue la radice e l’aria del paese natale.

Amato Maria Bernabei 

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