Uno dei problemi più affascinanti e misteriosi: è il tempo che “passa”, o siamo noi che scorriamo?… “Ogni uomo che si consuma / può fermare il tempo / – il tempo è nel suo sangue – / morire. // Ogni giorno / ha un giorno che lo precede / e noi diciamo che il sole torna, / ma sappiamo che non è mai andato…” (Amato Maria Bernabei, L’errore del tempo)

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Quella che segue è la parafrasi di una parte dei versi relativi al mito di Cronos, tratti dal Poema epico-drammatico Mythos, di Amato Maria Bernabei, pubblicato nel 2006 dalla Marsilio Editori di Venezia. I versi possono essere letti nel file pubblicato in calce, e scaricabile, nel quale è riportata anche la presente esposizione del mito.

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Qualcuno, in una pagina della Rete, ha scritto: senza il tempo non esisterebbe nulla. [1]

Io direi che senza nulla non esisterebbe il tempo. Non a caso Cronos è successivo alle cose, non le precede. Sono le cose che con il loro comportamento generano la percezione del tempo, ed è al variare delle cose e dei rispettivi comportamenti che tale impressione può variare. Il tempo è relativo, esiste in relazione alle cose, non in assoluto: non è una dimensione a-priori, ma a-posteriori.
Lo spazio è infinita possibilità di contenere, ma credo che, come il tempo, sia successivo alle cose, si ponga al porsi di esse. [2] Le cose prendono così ad “abitare lo spazio” e si moltiplicano amplificandolo, espandendosi ed espandendolo, in un continuo movimento, relativo e assoluto, relativo in riferimento agli altri movimenti, assoluto in riferimento a se stesso. Per nessuna cosa io credo esista lo stato di quiete. Dalla velocità del movimento dipendono le illusioni del tempo e dello spazio, che dunque variano in rapporto alle cose, al loro moto, alla velocità di questo.
In tal senso esistono uno spazio e un tempo percepiti come esterni e un rapporto spazio-temporale con le cose avvertito dalla coscienza.
Naturalmente le mie considerazioni non pretendono di avere valore scientifico né vogliono essere fondamenti di un sistema filosofico: intendono solo dare un contributo alla riflessione sulla realtà in cui siamo immersi.
Già all’epoca in cui nasceva Mythos, la mia meditazione sul tempo prendeva contorno nel mito di Cronos, anche se in forma un po’ diversa rispetto alle idee successivamente maturate:

 Orióne

La vita è breve e l’uomo la misura…
Non ha principio e perciò non intendo,
se il tempo è Dio, perché la veste è impura,                                            12

nel Cielo è fermo e noi l’andiamo agendo!
La risposta che tento è senza perno,
bràncola nel pensiero e non apprendo.                                                   15

    Menestrello
Cronos, che nacque, al Sempre vive interno,
ma dal suo punto è l’immenso che resta,
stende la semiretta dell’eterno;                                                                  18

e per la sua natura poi si presta
al senso doppio ed al tempo artefatto,
perché l’immoto al movimento desta.                                                      21

La retta è retta, e se percorri un tratto
separi dall’intero un suo frammento,
e da questo lo pensi tutto fratto.                                                                24

E quella invece ha pieno sentimento
di sé, non si riduce alle sue parti,
se pure le conosce in ogni accento.                                                            27

All’uomo relegato nei comparti
sfugge l’intero e restano le fasi,
l’impressione ternaria dei reparti.                                                             30

Il tempo vero è quello senza frasi,
Càos più di Crono, Vuoto e poi Nonvuoto,
modello e forma in assoluta stasi.                                                             33

E forse proprio per l’eterno ignoto
Crono invidia l’amore e lo molesta.
Non lo vuole costante né devoto,                                                               36

se lo teme immortale allora appresta
l’insidia, non sopporta discendenza:
del padre eviratore, manifesta                                                                   39

il vertice più fosco e la demenza
nei figli che divora per affetto,
lui stesso ceppo dell’insofferenza:                                                              42

nessuno di patire ha più sospetto
quello che prima contro gli altri volse,
di chi lo volse e sa di quel difetto!                                                               45

Crono, che contro il padre si rivolse,
adesso teme un figlio e quella sorte,
che gli sottragga quello che lui tolse!                                                        48 

“La vita è breve e l’uomo ne misura la durata. Se il tempo è un Dio (Cronos), non ha fondamento (non ha principio), e dunque non è comprensibile il fatto che (il perché) esso ha una veste impura, è fermo per gli Dei e scorre per gli uomini. (Adone ed Afrodite, vv. 157-162). La risposta che cerco di darmi non ha appiglio, stenta a muoversi nel pensiero, che si rivela impotente, così che non riesco a risolvere il quesito (l’apparente sintassi incerta ricalca il dubbio).
Il Menestrello risponde solo ad Orióne, perché in un certo modo Meròpe si è risposta da sola! Essendo nato, Cronos  non coincide con il Sempre, ma gli è interno, perché ha un’origine. Dal punto di origine, però, gode di tutto l’immenso spazio che resta, può stendere la semiretta senza fine; per la sua stessa natura, quindi, si presta alla concezione doppia ed artificiosa del tempo, come eternità e come scorrimento attraverso porzioni. Essendo nato, Cronos vive un’ambigua eternità, che ha un punto di origine e non di termine. Dunque è come una semiretta, ma come tale esprime la doppia dimensione del tempo, quella divina, eterna, [3] e quella umana, temporanea. Riserva agli uomini la scansione dei frammenti, fatta di prima, di adesso e di poi, mentre vive il suo perenne presente.
La retta non è una sua parte; ma percorrendone un tratto, inevitabilmente si immagina l’intero diviso in frammenti: la retta ha invece il senso della sua pienezza e della sua interezza in tutte le sue parti e di tutte le sue parti, che conosce in ogni elemento della scansione. All’uomo, che è confinato nel frammento, l’intero sfugge, e restano le singole fasi, con l’inevitabile impressione ternaria dei reparti, l’impressione della divisione ternaria del tempo, nei “reparti” del passato, del presente e del futuro.
Il tempo vero è quello non suddiviso. Dunque il Menestrello afferma che la vera divinità esprimente il tempo immobile è il Vuoto, lo spazio-tempo che è recipiente di tutto, che tutto accoglie e tutto forma, in cui tutto è fermo e tutto scorre, già recipiente quando è nulla ed ha nulla.
Forse proprio perché è nato, e dunque perché l’eternità gli è sconosciuta, Cronos è nemico dell’amore, unica forza generata dal Caos e quindi insita nel Caos, come il Caos eterna e perpetuatrice. Avendo evirato il padre, esprime il culmine più cupo della follia nella punizione preventiva che infligge ai propri figli divorandoli (affetto allude all’attacca-mento al trono ed alla paura di perderlo, ma anche al contrario di sé, creando ironia) nel timore di dover subire da un figlio quello che lui ha inflitto al padre! La radice della sua insofferenza è nel suo sospetto, è lui stesso.
Nessuno ha più sospetto di subire quello che ha fatto subire agli altri, dello stesso autore del sopruso, che ben conosce di essere in difetto! Di conseguenza Cronos, che si rivolse contro suo padre, teme (ed a ragione) di dover patire la stessa sorte da un suo figlio, che gli sottragga il potere, come lui lo tolse al suo genitore.

 Cronos

Il Tempo è la cadenza della morte,
non ci sarà chi al Tempo sopravviva:
il brano della vita è senza scorte.                                                                51

Cede la fibra al fuso e alla deriva
della maligna mano che dà il sesto,
perché ruotando in fretta poco viva.                                                        54

Né darà scampo ai nati dell’incesto
che l’utero di Rea nutre divini,
perché non rischi il regno, e rischi presto!                                              57

 Rea
Il Signore del mondo ha giusti fini:
inonda il ventre per l’eccelso pasto
nel timore di perdere i confini;                                                                   60

ma non resisto all’incessante guasto
e per essere madre mi nascondo:
qui, finalmente, l’insulto sovrasto.                                                            63

Essere madre è l’istinto profondo
che nessuna passione mai deprime,
nemmeno questo fuoco inverecondo.                                                      66

La legge degli Dei per loro imprime
qualunque brama lecita ed onesta,
e nessuna sanzione che reprime.                                                                69

 Menestrello
È solo chi governa che detesta
il limite al potere, e la morale
assolda, perché pieghino la testa                                                               72

i sottomessi, esposti al bene e al male,
e quello che nel suddito è un oltraggio,
per il tiranno è candido e leale!                                                                    75

 Rea
Io finalmente mi ritaglio un raggio
di piena umanità nel ventre pregno,
che per sentirmi donna ebbi coraggio.                                                     78

…il tempo sacro che descrive il segno
del seme sulle bocche dissodate…
ponente mite, soffio lungo il regno                                                            81

del grano che risponde in mareggiate,
passeri sulle spighe del convito
festoso che precorre le derrate…                                                                84

il lampo, che colpisce non udito
e poi romba nel tuono – e già prorompe
lo scroscio da quel nembo che ha ferito -,                                                87

benefico alla terra che si rompe
dalla calura, collera di luce
di chi sostiene il giorno, che dirompe…                                                     90

…e il mare… e dal triregno solo duce
delle distese scosse dal tridente,
la forza che distoglie o che conduce,                                                         93

che sdegna l’acqua o la fa sorridente…
…l’oro della Discordia e la Regina
che promette il potere ed è perdente,                                                       96

di cui però nessuna è più divina!
…lo scettro innominabile del mondo
che vede l’ombra senza più mattina,                                                        99

estremo, inattingibile e profondo…
…la vergine del fuoco che difende,
nel pritanèo, la casa ed il rotondo                                                              102

rito del nome…

    Menestrello
                               Il mare si protende,
Creta montuosa inazzurrando abbraccia…
pare che senta… il cielo si distende                                                             105

come volesse il parto fra le braccia.
Freme la primavera e invita il grano…
Crono, lontano, avverte la minaccia.                                                        108

 Cronos
Il figlio della Notte apparve strano
nelle finzioni che nel sonno accese…
un getto repellente e solo umano                                                               111

che svuota dalla bocca carni offese
sul ventre che si sgrava, e il sangue scola
al sangue e si trasforma fra le tese                                                            114

gambe del parto, gola dopo gola,
in urli più che pianti fino al sesto,
quando cade lo scettro e la parola…                                                         117

Che predice Morfeo nel sonno infesto? 

 Orióne
Non dicevi che vive di presente
ogni Nume, cui dunque è manifesto                                                         120

nell’attimo l’eterno, ed il veniente
come il trascorso ha soltanto un prospetto?
che compenetra tutto la sua mente?                                                        123

 Menestrello
Soltanto il Fato ingenera difetto!
Che, se decide, altro volere frena
e come il vino annebbia l’intelletto:                                                           126

pure dal Tempo, che ferma e che sfrena,
perché non cambi quello che dispone,
squarci di tempo, ingannevole, aliena.                                                    129

E in quel tratto che adesso non gli espone,
vagiscono gli Dei, la madre geme,
il verbo occulto la sua legge impone:                                                        132

destino che da sempre Crono teme,
che lo precorse e che ormai lo sovrasta,
e che s’incarna dal suo stesso seme.                                                         135

Inghiotte il sasso per la lorda pasta,
rigurgita gli Dei, Giove patisce:
chi di falce ferì, falce devasta!                                                                      138

Il giorno è sulla notte che sbiadisce.

Lo scorrere del tempo è una continua morte, il divenire. Non ci sarà mai chi sia in grado di sopravvivere al Tempo: il breve percorso della vita non ha riserve, una volta concluso non ha più scorte cui attingere. Tempo che consegna il filo della vita avvolto nel fuso in balìa di Cloto, della sua perfida mano che gli imprime l’arco di rotazione (il sesto) perché ruoti veloce e la vita duri poco. E non darà scampo ai divini figli che il ventre di Rea nutre: non può rischiare il trono, magari anche presto!
Rea si è rifugiata nell’isola di Creta per nascondere il suo stato di gravidanza e per sottrarre il parto alla famelica furia di Cronos. Il Signore del mondo ha certo fini “onesti” (con sarcasmo): feconda l’utero e poi divora vergognosamente i propri figli (l’eccelso pasto), nel terrore di perdere la potestà sui confini del proprio regno. E la sorella non resiste più allo sconcio senza fine e perciò si nasconde per potere diventare finalmente madre: finalmente nell’isola di Creta riesce a contrastare il sopruso e l’oltraggio.
Quello di poter diventare madre è un profondo istinto, che nessuna forma di passione avvilisce; la maternità può addirittura riscattare il fuoco indecente, immorale (per il genere umano!), dell’incesto. La legge divina stabilisce che ogni cosa, per gli Dei, è permessa e moralmente giusta e non prevede sanzioni per reprimere azioni illecite: anche una Dea, però, nel momento in cui patisce la sopraffazione, si rende conto dell’ingiustizia!
Solo chi governa non sopporta limiti al proprio potere e si serve della morale (nella metafora la assolda, la recluta) per accentuare la sottomissione dei sudditi, loro sì esposti alle regole del bene e del male! E quello che nel sottomesso è oltraggioso, diventa per il despota candido e leale, non solo permesso, ma addirittura puro!
Finalmente posso godere di una luce di piena umanità nella gravidanza, io che per sentirmi donna, attraverso il desiderio di maternità e la sua realizzazione, ho trovato il coraggio di ribellarmi e di nascondermi per partorire.
Rea viene colta all’improvviso da una trance divinatoria nell’intensa emozione di sentirsi madre: partorirà Demètra, Dea della fertilità della terra, perciò predice il tempo della semina, del gesto “sacro” del seminatore. sulle zolle rimosse, aperte come bocche per ricevere il seme. Il mite vento primaverile che spira da Ovest lungo il regno del grano che risponde al vento “mareggiando”; i passeri sulle spighe gonfie di chicchi per l’imminente mietitura, dove si sono dati appuntamento festoso per il pasto nel tempo che precede la falciatura (derrate sta estensivamente per raccolto).
Continuano le folgorazioni: Rea partorirà anche Zeus, Dio del fulmine.
La pioggia sembra sprigionarsi dalla nuvola “ferita” dal fulmine.
Juppiter, “Padre del giorno”, governa (sostiene) il giorno, e nella sua collera di luce dirompe nei fulmini; si rompe, anche nel senso di soccombere oltre che di spaccarsi.
Gea partorirà anche Poseidóne, Dio del mare, che avrebbe dovuto governare cielo, terra e mare, ed a cui tocca però soltanto il regno dell’ultimo; egli guida o disorienta i naviganti, fa sorridere il mare in bonaccia o fa incollerire le onde con il tridente, simbolo appunto dei tre regni. Nella sintassi e nell’allusività il linguaggio cerca di rendere il rapimento visionario di Gea. Forza è apposizione di mare che indica la divinità.
Altra figlia di Gea, Era, la più importante divinità femminile dell’Olimpo; fu sottoposta al Giudizio di Pàride (vedi mito relativo) per la disputa sorta durante le nozze di Teti e Pelèo, nel corso delle quali Eris, la dea della discordia, fece rotolare sul pavimento un pomo d’oro da donare “alla più bella”, pomo che Giunone, Afrodite ed Atena si contesero, promettendo al giudice rispettivamente il potere, l’amore, la saggezza: Pàride scelse l’amore!
Ancora un figlio di Gea, Ade, che ebbe il governo del mondo dei Morti, dell’ombra senza più luce, e che per molto tempo, nell’antichità, gli uomini evitarono di nominare; del mondo estremo, in rapporto alla vita, perché ultimo, non raggiungibile dai vivi (salvo eccezioni riservate a pochi), e profondo, perché sotterraneo e lontano.
Il Pritanèo è l’edificio delle città dell’antica Grecia in cui si custodiva il fuoco sacro e si facevano i sacrifici comuni: vi erano accolti a banchetto gli ambasciatori ed anche, a vita, i cittadini ritenuti particolarmente meritevoli. Prìtane si chiamava ciascuno dei membri del collegio dei cinquanta consiglieri in carica ad Atene durante una decima parte dell’anno, un terzo almeno dei quali doveva sedere in permanenza nel pritanèo. Il fuoco cui ci si riferisce è quello sacro di Estìa, sempre figlia di Rea, che avendo ottenuto da Zeus l’eterna verginità (cui allude la purezza del fuoco), proteggeva il focolare domestico e quello pubblico, anche nelle implicazioni morali. Il rito “rotondo” allude all’abitudine di portare in cerchio intorno al focolare il neonato prima dell’imposizione del nome durante gli z!:N4*DÎ:4″ , la festa familiare che si svolgeva entro dieci giorni da una nascita, e che simboleggia qui appunto la sfera della famiglia, affidata ad Estìa. Rea conclude la divinazione proprio con il rito per le nascite, avendo elencato i figli che partorirà, compresi quelli che recupererà dal vomito di Cronos indotto da Zeus. Casa è termine usato nella doppia accezione di pubblica e privata dimora.
Il cielo si distende come volesse accogliere il parto fra le braccia.
Cielo, terra e mare avvertono l’imminenza della nascita degli Dei che assumeranno le redini dei loro universi e Cronos sembra avvertire la minaccia.
Morfeo, dio dei sogni, figlio incestuoso di Nyx e di Ipno, dio del sonno nato da Nyx e da Èrebo, generatosi a sua volta dal Chaos, apparve misterioso in sogno… Il vomito, un sintomo solo umano, non divino, che rigurgita carni lacerate e sanguinanti su un ventre che partorisce, e il sangue delle carni che scola sul sangue del parto e si trasforma fra le gambe contratte, vagito dopo vagito, nella fuoriuscita di sei neonati, che urlano aggressivamente più che piangere. A questo punto, dallo sgomento per tale visione, lo scettro che Cronos ha nelle mani cade (presagio del potere che gli verrà sottratto) e il Dio non riesce a reagire, incapace perfino di pronunciare una parola.
Orióne è assalito dall’inevitabile dubbio: non dovrebbe avere conoscenza di tutto un Dio? Non dovrebbero per Lui coincidere l’attimo e l’eterno? Non dovrebbero avere una sola prospettiva il futuro ed il passato? Perché Cronos si chiede quale sia il significato di un sogno?
È il Fato che rende difettosa l’onniscienza divina, il Fato che, quando decide, frena ogni altra volontà ed annebbia l’intelletto con gli stessi effetti del vino: perfino a Cronos, che è in grado di vivere il tempo nell’immobilità e nella corsa e che quindi dovrebbe avere pieno dominio su tutti gli eventi collegati e conoscerli, il Fato sottrae squarci di tempo, per evitare che il Dio possa interferire nei suoi disegni.
La parola Fato significa “parola divina”, qui “parola occulta”. In quel tratto di tempo che adesso il Fato preclude a Cronos, imponendo la sua legge, Rea geme nel parto e gli Dei vagiscono: destino stabilito da sempre, prima che il Dio nascesse, e che ora lo sovrasta, incarnandosi dal suo stesso seme, con la nascita dei suoi figli.
Così Cronos prima ingoia un sasso che Rea gli porge, camuffato come fosse un feto; poi vomita tutti i figli ingoiati dopo ogni parto della consorte e infine subisce l’evirazione e viene spodestato da Zeus. Come si è detto, Zeus significa “giorno”, perciò il senso del verso allude al giorno sorgente sulla notte che sbiadisce, ma pure ad una nuova divinità, che prende il posto di quella precedente, al tramonto.

Amato Maria Bernabei

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Il racconto essenziale del mito

Crono (gr. Κρόνος; lat. Saturnus). Il più giovane dei Titani, chiamato Crono dai Greci e Sa­turno dai Romani, era figlio di Urano e Gea (il Cielo e la Terra), marito di Rea e padre di Estia, Demetra, Era, Ade, Poseidone e Zeus. Egli privò il padre Urano del governo sul mondo e fu a sua volta de­tronizzato dal figlio Zeus.
Secondo la tradizione, Crono aveva saputo da Urano e Gea che uno dei suoi figli sarebbe stato più forte e potente di lui, e per evitare il rischio di venir privato del potere inghiottiva uno alla volta tutti i suoi figli appena nascevano. Ma Rea, per salvare almeno l’ultimogenito, Zeus, diede alla luce quest’ultimo segretamente e consegnò a Crono, perché la ingoiasse, una pietra avvolta in fasce. Zeus poté cosi avere la meglio, una volta cresciuto, sul padre, costringendolo a rigettare tutti i figli che aveva ingoiato e subentrando a lui nel regno.
Crono è legato soprattutto, nelle fonti antiche, al ricordo dell’età dell’oro, cioè al periodo più felice della storia dell’uomo, al quale lo collega una serie di leggende. Quando Zeus gli subentrò nel dominio dell’Olimpo, Crono continuò a regnare sulle Isole dei Beati (Pindaro, Olimpica 2.70).
Alcune importanti invenzioni nel campo dell’agri­coltura erano attribuite a Crono: in particolare quella della falce e della potatura della vite, che egli insegnò all’uomo insieme con l’arte di coltivare i campi (Anna Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET 2002).

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[1] Lucio Garofalo, http://www.riflessioni.it/lettereonline/tempo_2.htm (strafalcioni a parte…).
[2] L’incipit del poema Mythos, Lo spazio senza spazio, gola vuota / che tutto conterrebbe e niente inghiotte, / all’improvviso accende, mentre ruota, / nel cupo grembo dell’eterna notte / un vento che di moto si feconda… potrebbe apparire in contraddizione con quanto appena detto se non correttamente parafrasato: la condizione originaria dell’universo è spazio senza spazio, perché questo si pone soltanto in rapporto a ciò che contiene, e se non contiene è vuoto, e perciò non è spazio. Dunque la gola vuota di questo originario contenitore potenziale che tutto potrebbe accogliere, ma nulla inghiotte, perché nulla esiste, accende all’improvviso, nel grembo scuro e ruotante della notte eterna, un vento che trova fertilità nella primordiale spinta dell’eros, che più si avvolge su se stesso, e più materializza il suo percorso addensandosi in un uovo d’argento (Amato Maria Bernabei, Mythos, Teogonia, Venezia, Marsilio Editori, 2006, p. 5, vv. 1-15).
[3] Nella dimensione mitologica, e immaginando lo scorrere del tempo lungo una retta, si tratta di un’eternità intesa come inesauribilità del verso, non come infinità della direzione.

Scarica: Cronos

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