Le due facce dell’incapacità di amare… Narciso ama se stesso dentro se stesso, Pigmalióne si ama nella proiezione di sé: quindi la mano che modella, lo scultore, per quanto si rivolga a se stesso nel sé straniero, nel sé che ricompone al di fuori di sé, esprime un emisfero dello stesso genere di affetto, metà di un’unica sfera narcisistica.

L’amore di sé, in sé o nell’altro da sé, con il suo fuoco e le sue due facce, sagoma la medaglia dell’incapacità di amare.

Il mito di Pigmalione, mentre coglie l’incapacità umana, se non di vivere l’alterità, almeno di accettarla come tale, sembra annunciare ante litteram l’assunto fondamentale della Programmazione Neurolinguistica (PNL): “La mappa non è il territorio”, la realtà che noi ci rappresentiamo non è la realtà, a dispetto della pretesa di conoscenza che tutti avanziamo, della presunzione di possedere la parola definitiva sul mondo. Galatea, costruita a immagine e somiglianza dal suo scultore, è l’arroganza di volere tutto secondo i propri schemi di riferimento, senza tenere minimamente conto che al di fuori di noi le cose non sono come ci sembrano o come le vorremmo; Galatea è la convinzione folle che il mondo ci rispecchi, la farneticante proiezione esterna dell’amore di sé, il narcisismo che si oggettivizza.

Mai Pigmalione potrà sinceramente dire alla sua Galatea io ti amo, perché la sostanza del suo sentimento abita nell’io mi amo in ogni cosa. Del resto è nella stessa natura umana il limite dell’apertura all’altro, non solo per l’illusoria libertà di arbitrio, che sceglie solo nella direzione verso cui l’indole porta, ma soprattutto per il fatto che, “dopo non aver scelto” veramente l’altro, in forza delle urgenze che lo cercano adatto al sé, lo si pretende “come le proprie aspettative lo prefigurano, finendo per esserne sempre insoddisfatti e per condannare l’amore al fallimento”.

Narciso si ama in sé e disdegna il mondo: non c’è realtà, per lui, che viva al di fuori, sicché l’universo si esaurisce nel suo io: tanto che il solo impatto con la propria figura come altro dal mondo, è la sua morte.

Egli è sempre oltre le cose, non perché teso a coglierne l’essenza, ma perché le attraversa senza nemmeno scorgerle: tutto per lui è vuoto, o tutto è cieco, o trasparente, e non perché chiaro, ma perché invisibile.

Pigmalione è altrettanto cieco, se tutto vede e tutto non vede, assimilandolo a sé. Narciso si specchia nell’acqua e non sa dell’acqua, Pigmalione abbraccia il freddo corpo di una donna senz’anima, e non sa dell’anima e della donna: abbraccia la propria bellezza, abbraccia il sale che non risponde, come non ha risposta il sé per il sé, ma solo l’eco della domanda, che a specchio si ribadisce.

Galatea che s’incarna non differisce dalla Galatea di sale: per Pigmalione è soltanto l’avveramento del perverso desiderio di amarsi, il coincidere dell’altro con il sé, per la morte di entrambi. La splendida statua, cui Afrodite concede di vivere, è un replicante, ed è insieme l’emblema della realtà che Pigmalione vive: un tutto a sua immagine e somiglianza, perciò ignorato e ignorante, perché mai visto come altro e mai nella possibilità di vedere l’altro. L’amore che si ama è fiamma che brucia se stessa. In definitiva anche in questo caso siamo di fronte ad una realtà inconsistente, a mera apparenza.

Non soltanto le cose sono inconsistenti per Pigmalione e per Narciso: loro stessi sono inconsistenti per le cose. La voce di Eco, che proviene dalla parte in cui Eco non è, non è una voce, ma un’apparenza, un’inesistenza che tenta la soglia di un’altra assenza… Eco è condannata a un destino di amore senza voce, a struggersi nel pianto, ad essere pietra, a vibrare per sempre un suono d’altri, perché Narciso svuota, distrugge, conferisce una mobile alterità (il continuo mutare delle voci riecheggiate) capace di mischiare “il vero altro del tutto” in un tutto di vibrazioni monotone, iterate, svanenti, che mentre lo cercano, lo perdono.

Dunque, di Narciso, “le cose” hanno perfino la voce… una ragione in più per non esistere. Ci si chiede se ciò che non esiste possa morire: in realtà non muore l’amore inesistente, ma l’amante che ama sé, nella sua illusione di amare. L’acme del dramma è la fine del soggetto drammatico, la fine di un assurdo, l’epilogo di un tentativo, di un non producibile, innaturale, infecondo eros. Le labbra che si accostano a se stesse baciano l’impossibilità, e con essa la morte.

Infine si può notare che il disprezzo della figura femminile, riassunto nella formula della dissolutezza muliebre, cui la statua d’avorio si sottrae, esente dalla contaminazione, è l’elemento che si aggiunge, nel mito dello scultore, come stereotipo dell’umanità di sempre; disprezzo che, per quanto presente in Narciso, ha però tutt’altra connotazione: la svalutazione narcisistica dell’altro non trova ragioni nell’altrui difetto, ma nell’inestimabile, inarrivabile pregio del sé.

(Il racconto essenziale dei miti e l’approfondimento sono nel documento allegato)

Apri e salva: 04 Narciso e Pigmalione

Amato Maria Bernabei

Poema epico-drammatico mitologico, Marsilio Editori, Venezia

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