Alla categoria dell’amore che si risolve nel soggetto che ama, sembra poter appartenere anche l’affetto materno, il quale, sotto un certo profilo, riunisce le caratteristiche del narcisismo e del pigmalionismo, delineando un altro aspetto dell’incapacità umana di amare. Si vedrà infatti come quello della madre per il figlio sia insieme un amore di sé in sé e nell’altro da sé: amore di sé come per la “creatura-propria carne” che germoglia nel proprio alvo, e come amore per la “creatura data alla luce”, come altro da sé, ma a propria immagine e somiglianza.

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Quella che segue è la parafrasi di una parte dei versi relativi al mito di Aracne, tratti dal Poema epico-drammatico Mythos, di Amato Maria Bernabei, pubblicato nel 2006 dalla Marsilio Editori di Venezia. I versi possono essere letti nel file pubblicato in calce, e scaricabile, nel quale è riportata anche la presente esposizione del mito.

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Già la figura della dea Artèmide esprime una «vertiginosa mutevolezza di atteggiamenti e di propensioni che offende la razionalità, o quanto meno la disorienta, nella sensatezza vacillante che propone; razionalità che, se percorre tutta la radice dell’ambigua natura della Dea, fino all’estremità, riesce a cogliere il senso dell’affascinante altalena in cui si esprime la femminilità. Artèmide, che si mostra restìa nei confronti del sesso, ma contemporaneamente favorisce gli incontri promiscui, non nega, anzi conferma la femminilità nelle sue peculiarità, fra cui spiccano la volubilità e l’antinomìa (questa, forse, solo apparente). E se mentre ama, nello stesso tempo propende per la morte, se protegge gli animali e poi li uccide nella caccia, protegge le partorienti e poi infligge la morte con le sue frecce spietate (Artèmide era considerata responsabile della morte naturale delle donne, come Apollo presiedeva a quella degli uomini), al punto da apparire protettrice degli stessi soggetti che inganna, Artèmide può ricondursi agli istinti materni, alla madre che genera il figlio e lo uccide, nel senso che lo concepisce, lo porta in sé e lo partorisce, ma lo fa altro da sé conservandolo come proprietà, e snaturando quindi la libertà del figlio di essere “altro”, visto che materialmente lo divide da sé con il taglio del cordone ombelicale, ma psicologicamente quel cordone lascia intatto, legando per sempre a se stessa la propria emanazione e perciò uccidendola come “altro”».

(Amato Maria Bernabei, Mythos, Artèmide, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 179, vv. 53-67).

Il mito di Artèmide sembra dunque negare l’espressione più alta dell’amore, l’affetto della madre, che, secondo il comune sentire, più di nessuno sa donare e nulla tiene per sé.

Il fatto è che “l’amore ha bisogno di un oggetto per esprimersi: quando questo è il soggetto stesso che lo nutre, la vera essenza dell’amore si perde”, fino a sfumare nell’egoismo, che è quell’amore di sé che non ottiene / il beneficio che l’amore attende, visto che il beneficio dell’amore nasce dalla sua “capacità di stimolare lo sviluppo di valori personali contrari al proprio egocentrismo” (Bertolini, Dizionario di psico-pedagogia) e che non può certo esprimere tale peculiarità ripiegandosi su di sé. Quando infatti l’amore di sé è contenuto nei limiti naturali dell’istinto di conservazione (inalienabilità dell’io) appartiene alla sfera delle difese legittime; ma quando esso pretende, smarrendo il modo e la misura, di dare a se stesso quello che già contiene in sé (ecco la distorsione e la sterilità dell’amore di sé), non riservandolo alla crescita di sé e degli altri attraverso il dispiegamento, allora contraddice l’essenza stessa dell’amore, imbrigliandosi dentro il nodo che non può dispiegare e che può solo contrarre, rinchiudere, ridurre, ed è uno slancio falso, in quanto rimane inchiodato su se stesso. È questo l’istinto materno, una forma di egoismo, perché non sa sottrarre il figlio da sé, più sterile proprio nel grembo che dà la vita (feconda), che nutre e produce il frutto e non sa allontanarlo da sé. Dunque il mito non deforma la realtà: se mai la descrive! Piuttosto è l’esperienza che esso raccoglie in sé (che raduna) che gli conferisce la possibilità di dare delle risposte ai quesiti che assillano l’uomo.

(Amato Maria Bernabei, Mythos, Aracne, Marsilio Editori, Venezia, 2006, p. 181, vv. 4-18).

Lo stesso sentimento anima ed accomuna gli Dei della mitologia, i quali “nella forma più distorta dell’amore (l’egoismo), amano ed odiano, donando all’uomo e rinnegando, dandogli la vita e togliendogliela, padroni assoluti del suo destino e per nulla rispettosi dell’alterità (in quanto antitesi dell’identità) e della libertà. Il mito di Artèmide (la Luna) esprime nel modo più evidente il decoroso torto, il sopruso mascherato di benignità che l’egoismo divino sa perpetrare ai danni dell’umanità.

Un aspetto di questo amore distorto si rinviene in un mito che riguarda Atena, Dea che disprezza l’inettitudine, che coltiva nel suo “orto” le arti e le scienze, e che amministra equamente la giustizia, ma sa dimostrare il suo apprezzamento per la maestria infliggendo la morte! Aracne, figlia del tintore Idmóne di Colofóne, nella Ionia, è così abile nel tessere che con il manichetto (negli antichi telai per tessitura, era il corto cilindro di legno in cui era infilata una corda per il comando dei battenti; Devoto), la spola, il pettine, sublima la natura nelle scene che rappresenta, e sembra avere l’archetto (tesse musica!), o sembra capace di poetare attraverso il muto intreccio dei fili, quasi fosse il poeta Mimnermo (originario anch’egli di Colofóne, autore di elegie sulla fugacità della vita e sull’orrore della vecchiaia). Il compiacimento per l’abilità acquisita è tale che Aracne ritiene i suoi tessuti pronti a sfidare la Dea che presiede a quell’arte, Atena.

Dispiaciuta, offesa, prima di accettare definitivamente la sfida, Atena appare ad Aracne nelle sembianze di una vecchia ricurva e tenta di dissuaderla da un’impresa senza speranza (e dissüade); ma Aracne (la spola) rifiuta ogni invito, perché non crede presunzione la capacità, che riconosce a se stessa, di tessere trasformando tutto in insuperabile merletto. La Dea smette allora la maschera da vecchia ed al parere discorde delle contendenti subentra il duello (cessa l’opinione): altèra nella sua bellezza e nella sua abilità, Atena splende e si prepara alla tessitura. Aracne si concentra e si abbandona all’intreccio, è quasi dentro la sua spola e si distende lungo l’ordito che diventa mare (per la “navetta”) e sembra riflettere sulla superficie le vele dell’impresa, le forme che veleggiano, prendendo corpo, e che sono espressione dell’impresa che la tessitrice affronta.

Aracne stringe filo a filo nelle rare figure che compone e che il pettine divide e serra (il pettine è “la serie di lamelle verticali parallele, fissate in una cornice rigida, che tengono divisi i fili dell’ordito e serrano tra loro le trame”, Devoto) ed il subbio (cilindro su cui si va ad avvolgere il tessuto prodotto dal telaio; Devoto) avvolge quando nel tessuto sono ormai definite. Una sfida nella sfida si accende nelle scene rappresentate, che costituiscono una reciproca accusa, illustrando i relativi difetti. Il tessere è come un dire: Aracne descrive le aberrazioni degli Dei, mentre la mano sublime della Dea dirige l’offesa e la svolge descrittivamente in altri effetti (che sono anche da intendere come esiti del comportamento umano, visto che si allude al costo dell’arroganza).

Le due contendenti dispongono il filo alla rappresentazione: Aracne degli affetti smodati (ingordi) degli Dei, del loro sconcio comportamento, che poi agli uomini viene vietato; l’altra esprime invece nelle scene il rancore represso, che lega la punizione che vuole infliggere a quello che lei descrive attraverso il telaio (la sorte che tocca ai tracotanti). I due arazzi sono dei capolavori: il colore è così fedele da sembrare vero e le figure aggettanti aggiungono alla bidimensionalità del piano la profondità dello spazio e l’immobilità sembra, nel calore e nella rappresentazione fedele, muoversi.

Un Dio volle che in Aracne fosse divina l’abilità (il gesto) della tessitura, ed un Dio, nella rabbia per l’affronto di tale abilità, infligge dolore al “gesto”. Dal momento che Atena non può prevalere sulla sfidante, perché pari sono nella perfezione i due orditi (non ha testo, non ha “textus”, intreccio per prevalere, ma anche non ha forza paradigmatica, perché gli elaborati sono inconfrontabili), straccia la tessitura della rivale ed impone la sua arroganza per punire l’arroganza presunta di Aracne (che tale non era, evidentemente, visti i risultati), contro la quale scaglia slealmente una spola che ristabilisce le distanze fra il divino e l’umano, fra la Dea e la fanciulla. La fatica affrontata nella tessitura del capolavoro, l’abilità senza paragoni, il pregio del tessuto che non ha probabilità di trovare l’uguale non sono in grado di alzare argini allo sconforto di Aracne, ma piuttosto spingono la giovane tessitrice al suicidio per impiccagione.

Aracne si impicca: la morte (apparente, perciò il sonno: la tessitrice ha perso i sensi) e l’estro dell’arte oscillano sui brandelli dell’ordito, benché non ci sia vento che li spinga, resi lividi dalla stretta del cappio. Ma prima che la morte inghiotta definitivamente i sensi persi, Atena rende maldestro il tentativo di suicidio di Aracne ed affida la fune che rompe alla filiera, all’organo che nei ragni secerne i fili di seta, trasforma dunque la fune in filo di ragnatela, in modo che Aracne penda in eterno appesa al suo filo e continui a sbavare seta vischiosa, e con essa a tessere ininterrottamente. Così Aracne tende i fili d’argento senza più meta: un volo rompe la ragnatela, oppure il vento la straccia, ma subito l’addome del ragno secerne dalle filiere la segreta fibra, il filo che nasconde nell’apparato secretore, con cui è in grado di riparare le falle delle ragnatele e di riallacciarne le trame”.  

(La trattazione, con i versi relativi tratti dal poema Mythos, sono nel file allegato).

Amato Maria Bernabei

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