Materiale o immateriale che sia l’oggetto computato (libri o idee, per esemplificazione), la quantità è un numero. La qualità ha invece determinazioni molto più complesse, come dimostrano le classificazioni filosofiche, da quella di Aristotele a quella di Locke. In questo contesto, però, se ne parlerà esclusivamente in funzione della sfera estetica, come giudizio di valore.

Per essa bisognerà ammettere una possibilità di valutazione non legata ai criteri del soggetto, ma ad un sistema “oggettivo”, un acquisito ventaglio di codici collaudati che permettano di stabilire che cosa debba essere considerato genuino prodotto artistico, indipendentemente dal gusto personale: convenzione senza la quale non sarebbe mai stato possibile scrivere, o semplicemente avallare, una storia della Letteratura, o della Musica, o della Pittura, né tanto meno, al loro interno, stilare gerarchie di artisti… Convenzione, in ogni caso, sulla cui natura, scaturita dalla tradizione o di origine trascendentale [1], è lecito dibattere.

Ciò premesso, ed ammessa la possibilità di valutare, si può certamente sostenere che il sistema consumistico, che assegna valore alla commerciabilità dei “prodotti” trascurando qualsiasi altro parametro, penalizza gravemente la qualità artistica, dovendo prioritariamente assecondare la richiesta di massa, legata al gusto di massa, non proprio esigente sotto il profilo “estetico”, tanto più perché oggetto di scarsa attenzione educativa, ed anzi di bombardamenti che lo trattengono nella propria dimensione, spingendolo sistematicamente a consolidarsi e, per così dire, ad acquistare la proiezione di sé nella “degna” merce predisposta dai venditori.

Al punto che non è possibile sottrarsi a un interrogativo drammatico: l’arte è morta? o magari c’è da sperare che le manchi luce nel cono d’ombra di un’eclisse? Che sia nascosta fra il quanto, che per il mercato deve esser tanto, e il quale, che per il mercato deve esser mediocre?… Che sia dunque sommersa, risospinta in acqua, senza sosta, dalle perverse logiche dominanti?

Una speranza, per non paventare un’estinzione!

Certo che gli esempi di sforzi per sopravvivere non mancano. Il richiamo a modelli che sembrano oltre orizzonte, come vele che hanno varcato la sommità della curva di mare colta da uno sguardo, è più frequente di quanto si creda, più fertile dell’arido terreno su cui la semente di quelle fogge cadde…

Ci sono scrittori di moderna stagione che vestono panni antichi, ornano di classica forma i loro versi, alimentando il sogno di un risveglio per cui l’imbarbarimento incivilisca… sogno forse impossibile, come un ossimoro che trovi avveramento…

Nobile sforzo comunque, come quello che qui si propone. Con l’auspicio che sia foriero di tempi nuovi.

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I SONETTI PIÙ PREMIATI DI ENZO RAMAZZINA

* * * * *

 

TRAPASSO

  

Un sole, a riscaldar senza mordente,
pigramente sul margine languiva.
Scrutando il roseo mar che lo inghiottiva,
un vecchio sospirava amaramente

le trascorse stagioni. Sulla sabbia,
disperato e con rabbia, trasaliva
un esausto salmone e, alla deriva,
un secchio galleggiava ed una gabbia.

Fissava, il vecchio, plaghe sonnolente,
solcate dalla sterna silenziosa,
quand’ecco s’accasciò improvvisamente

nell’ora che si stempera di rosa.
Benché la vita schiuda un seducente
sogno, tragicamente è misteriosa.

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LA SEPOLTURA DEL CANE

 

Ho sepolto tra i rovi e il biancospino,
là, presso il varco delle antiche mura,
il mio vecchio levriere. A lui vicino
la bruna talpa, pavida e insicura,

sopra il tumulo arranca e si trascina.
C’è chi lascia e chi resta, ond’io, seduto
dove il trifoglio al luppolo s’abbina,
l’animo affondo in un dolore muto

e il labbro impercettibile mi trema.
Ma se anche il ciglio gravido s’imperla,
è perché penso che alla tappa estrema

volge il mio passo sotto infausta gerla.
E ancor che all’occhio la membrana prema,
vedo la talpa e non vorrei vederla.

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 SUBLIME

E se sollevo il capo alle assordanti
folgori estive, quando il ciel turchese
cupo sovrasta le colline accese
e indugiano a calar gocce sonanti,

pure a sedurmi è il poggio, ove s’espande
l’erica in fiore e la robinia asconde,
coi suoi baccelli penduli, le ghiande
dei roveri frondosi. Sulle sponde,

che la calura invano inaridisce,
rosseggia a chiazze l’irto pungitopo
e svola il tordo e guizzano le bisce

dietro i cespugli e si nasconde il topo.
Se l’animo s’abbruna, o si stupisce,
vige il Sublime. E la natura è d’uopo.

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 IL POZZO

C’è un vecchio pozzo, in mezzo alla boscaglia,
diroccato e ricolmo di sterpaglia
e di mattoni frantumati e paglia,
dove s’annida, per covar, la quaglia.

Benché raccolga fetida e piovana
acqua, sollievo della pantegana,
io l’ho prescelto come fonte arcana
per le mie rime e non c’è forma strana,

laggiù, per me, né odiosa o dissacrata,
che non m’ispiri. E osservo l’ostinata
zanzara e la lucertola che guata

e il serpe che s’insinua, con il ratto,
dove ai licheni il muschio s’è ritratto.
È il pozzo della vita! Ed io son matto.

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LA POESIA INSEGNA

Un giorno, a rassettar le silenziose
stanze, adombrate dal piovoso autunno,
io sarò solo. Delle muse alunno,
talora affiderò le melodiose

rime al biancore ozioso d’un taccuino,
chiedendomi qual senso abbia il mio volo.
Ma il senso, ancor che tu mi manchi e solo
m’attardi a ragionar col canarino,

né venga a rallegrarmi il fortunato
vicino con l’enfatica rassegna
degli amori recenti, io l’ho trovato

nei versi della lirica più bella:
quella che occulte verità c’insegna,
cullandoci col canto e la favella.

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SCIABORDÌO 

 

Or che d’ignoto investono il pendio
l’ombre serali e l’astro s’abbandona
nell’aurea linfa che gli fa corona,
non muta il cadenzato sciabordio

che, affranto, nella dàrsena risuona.
È un frangere discreto, un dondolio
che mi racqueta: un cantico restio,
che la segreta fonte d’Elicona

d’un gettito ravviva. E mi consola
che, al modulare alterno della lira,
non sia più canto per un’alma sola,

se a vagheggiare l’altrui mente ispira.
Il murmure blandisce la parola
e la parola mormora e sospira…

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L’ARTE È MORTA

 

Vecchio poeta, tu lo sai qual fosca
notte è discesa sulle vie dell’Arte?
Ignorerai le impolverate carte
sul tuo tavolo antico, ove la mosca

ritorna petulante e forse il tarlo
si scava le sue tane. E se il talento
ti sembra un rivo discontinuo e lento,
distoglierai la mente a rinnovarlo,

ché quasi cieco sei, né più ti basta
il cuore stanco e gravido di guai.
Sgominata è la nobile tua casta

e vergognoso e solitario stai
tra i poeti sconfitti in questa vasta
radura. L’Arte è morta e tu lo sai.

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ALL’AUTORE DELL’ISPIRAZIONE POETICA

 

Se, per amore, m’accordassi in terra
oltre al mio tempo, una manciata d’anni,
io ne farei lussureggiante serra
di belle rime e lascerei gli affanni

alle mie spalle, per lodare ancora
Te, dell’afflato mio fonte remota
e reiterata al cuor, sebbene ignota,
luce, preludio d’imminente aurora.

Ché, se sfrondai di regole ed orpelli
questi logori versi e mi sottrassi
dal novero dei rozzi menestrelli,

non al talento devo i miei stornelli,
ma alla tua Musa, che orientò i miei passi,
perché intonassi i cantici più belli.

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SONO VECCHIO, SIGNORE

 

Sono vecchio, Signore, e se rammento
le trame arrugginite del passato,
va il mio pensiero dove ho seminato
sterile seme e dove il mio talento

vanamente ho sprecato. E m’arrovello
di non aver piantato la semente
preziosa dell’amor che, saggiamente,
sa trasformarsi in tubero novello.

Mentre guardo le stelle all’orizzonte
e il palpito dell’anima rallenta,
convergi il mio pensiero alla tua fonte

di puro amore illimitato e tenta
l’ultimo approccio, che mi fa da ponte:
dammi speranza in questa notte lenta.

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I sentimenti a cui i miei versi s’ispirano sono essenzialmente di tipo amoroso, religioso ed esistenziale: così come l’amore, la religione e le inquietudini per il mistero della vita e della morte sono i sentimenti primordiali dell’uomo d’ogni età, i più idonei ad essere appassionatamente effusi. Quanto alla forma, poiché un’emozione intensa è generalmente breve, le mie liriche s’esprimono in componimenti di limi­tata lunghezza. Tra le forme di poesia classica, ho sempre preferito il sonetto, perché il più agile ed equilibrato per misura e con­formazione strofica: con il sonetto, costituito da soli quattordici endecasillabi, un bravo poeta riesce ad esprimere una varietà notevole di immagini e di concetti, e a lasciare ai lettori i più validi messaggi

(dalla premessa dell’Autore alla raccolta “Più non ti sento, o dolce capinera”,
Edizioni Bertato, 1997)

Enzo Ramazzina

 


[1] Nel senso di attinente “alle condizioni di conoscibilità a priori degli oggetti” (Devoto).

 

 

 

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