Spesso chi vuole contrapporsi alle critiche rivolte al Tutto Dante di Benigni si richiama alle autorità prestigiose che lo sostengono e ai riconoscimenti accademici che lo hanno premiato, per mettere a tacere l’oscura fama del “critico”, la sua dubbia competenza, o addirittura l'”invidia”…

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Vengono quindi sbandierate, ad esempio,  le Lauree honoris causa conferite a Benigni, o la prefazione di Umberto Eco a Il mio Dante.

Ho già avuto modo di esprimere il mio pensiero sui “conferimenti-business”
(http://www.odanteobenigni.it/?p=723)
e non mi meraviglia che un Umberto Eco possa scrivere un’accondiscendente introduzione per il libro di un amico.

Nella quale, peraltro, l’autorevole studioso si guarda bene dal condurre un’analisi puntuale del Tutto Dante di Benigni sotto il profilo esegetico, ma piuttosto accenna vagamente ad alcune caratteristiche dello spettacolo e a presunte doti d’intellettuale del comico.

Analizziamo con attenzione.

L’articolista che in Rete introduce la prefazione scrive dell’attualità linguistica di Dante, volendo rimarcare il fatto che fra l’Italiano del Trecento e quello attuale non molte sono le differenze. “Come ha osservato De Mauro, quando Dante comincia a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale dell’italiano è costituito per il sessanta per cento, e alla fine del secolo è praticamente completo, al novanta per cento. Il che significa che sulle duemila parole circa che sono indispensabili per parlare italiano e farsi capire da chi lo parla, almeno mille ottocento ci sono già in Dante. Questo fenomeno deve certamente essere citato come uno dei segni negativi dello sviluppo dell’Italia come nazione: infatti, se l’italiano fosse stato parlato sin dagli inizi da tutto il popolo, dai mercanti, dagli artigiani, dai giudici e dai militari, dai contadini e dal re, esso si sarebbe trasformato come si sono trasformati francese e inglese, a tal segno che oggi un francese o un inglese, se leggono autori loro dell’epoca di Dante, ne capiscono pochissimo, come se si trattasse di un’altra lingua”

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/10/17/sogno-un-film-con-benigni-nell-inferno.html

Eco apprezza subito tono, enfasi, passione (per non dire dei commenti)… Dei commenti, infatti, non dice. Afferma invece di gradire l’uso dell’accento toscano nella recitazione: esattamente quello che facevano i contemporanei di Dante e che Dante voleva facessero, se l’ avessero fatto in modo corretto.

Mi soffermerei, però, su un passo che, a mio avviso, ha dato origine ad un equivoco che sento continuamente ripetermi contro, quando sostengo che la Commedia è accessibile solo a chi sia preparato ad accostarla: l’opera era, diremmo oggi, best seller sin dalle origini, e best seller popolare, visto che la cantavano, magari anche malissimo, persone che certamente non l’avevano letta bensì udita dalle labbra di qualche miglior cantore. Che una persona canti Verdi, per giunta male, non vuol dire che la musica di Verdi è “popolare”, accessibile cioè anche all’ignoranza, compresa da tutti! Il De Vulgari eloquentia è comunque testimonianza decisiva delle intenzioni di Dante di nobilitare il “volgare” creando una lingua per letterati, solo da questi fruibile, solo a costoro accessibile. La Commedia circolava fra la gente che spessissimo la storpiava, era per questo “popolare”, cioè conosciuta dai più, ma non popolare nel senso che fosse alla portata di tutti. L’ira di Dante, rimarcata dagli aneddoti riferiti da Umberto Eco, rinforza questa tesi.

Direi addirittura che Umberto Eco si tradisce, o diviene profondamente sincero, quando accosta Benigni al portinaio o al commerciante che sapeva far di conto e che ammaestrava la gente ignorante: Benché ci fosse già un’industria culturale svilup­pata e le opere uscissero a pun­tate sui quotidiani, tuttavia la maggioranza degli appassio­nati non le sapeva leggere, e si riuniva la sera nel cortile o nel­la strada, ad ascoltare l’intellet­tuale di turno, il portinaio o qualche commerciante che sa­peva far di conto, cosi come og­gi ci si siede davanti alla televi­sione ad ascoltar Benigni !!!

Lo studioso evidenzia quindi un legame tra le letture di Benigni e il destino eminentemente orale della let­teratura (ma per lettura Eco intende “recitazione”) e su questo nulla ho da ridire, perché egli si riferisce alla tradizionale abitudine di “recitare” (e sottolineo recitare) in pubblico la poesia.

Altro passo in cui il semiologo sembra tradire il suo vero pensiero è quello in cui afferma: Non mi stupirei che coloro che recitavano Omero all’inizio (o che recitando han­no contribuito a creare il mito di Omero) dopo aver racconta­to di Troia o di Ogigia, si met­tessero anche a mangiar fuoco, o comunque a strimpellare sulla lira per far terminare la sera­ta e andare in giro col piattino. Vuole dire Eco che non si stupirebbe se quelli avessero fatto come fa Benigni?…

Un passo che ci sentiamo in dovere di chiosare è il seguente: È errore moderno credere che la poesia sia cosa per intel­lettuali raffinati: è la più popo­lare delle arti, ed è nata per essere recitata a voce alta e mandata a memoria, altrimenti di­temi voi perché mai avrebbe dovuto usare artifici mnemo­tecnici come il piede, il metro o la rima.

Considerazioni corrette, ma è comunque ugualmente errato pensare che tutta la poesia nasca come “la più popolare delle arti”. Tutti cantano, anche gli stonati: il canto è dunque popolare, il “bel canto”, però, non è la più popolare delle arti!

Sulle doti declamatorie di Benigni io ho molte riserve e, per quanto condivida certe notazioni di Eco, divergo su altre: Al qual proposito occorre di­re che Benigni recita bene i poeti perché non inclina al vi­zio di molti attori, e cioè non elimina gli enjambements, ma an­zi li fa sentire.

Il fatto è che Benigni “li fa sentire” anche troppo, trascurando la continuità semantica e la coerenza dell’intonazione, esigenza cui, del resto, Umberto Eco accenna più in là: Ma se il poeta ha usato l’enjambement non sarà stato a caso, e dunque, se pure si deve fare sentire l’in­terruzione del verso, si deve al tempo stesso far capire che la frase continua al verso succes­sivo. È una lotta tra significante e significato, tra sostanza ritmi­ca e senso. […] Il bravo attore, invece, farà una pausa alla fine del verso, ma più breve del solito, in mo­do che si sentano e la spezzatu­ra ritmica e la continuità se­mantica.

Poi, però, Eco incensa l’amico in modo abbastanza ingiustificato… Arte difficile, nella quale Benigni eccelle.

Mi pare di aver dimostrato sufficientemente che questo non è vero: (http://dettaglitv.com/?p=6139).

Altrettanto esageratamente encomiastiche sono sia la dichiarazione che attribuisce all’attore raffinatezza intellettuale, che l’allusione alle sue ottime letture: il saggio “O Dante o Benigni” smentisce senza appello, quanto meno sul piano dell’assimilazione e della capacità di comunicazione, o di “trasferimento”, se si preferisce, queste “eccellenti qualità” del comico toscano.

Eco parla poi di “vocazione didattica”… Basterebbe semplicemente prendere in considerazione il caos in cui Benigni sprofonda soprattutto quando si cimenta in spiegazioni impegnative, e non solo, per contestare questa inclinazione: http://www.odanteobenigni.it/?p=1986

Non si capisce, successivamente, se le “lauree honoris causae” siano un refuso o una presa in giro: cfr. “O Dante o Benigni”, pag. 345, di cui si riporta qui il primo capoverso.

«Alla Casa Editrice Einaudi consigliamo di controllare meglio la stampa, per sottrarsi a refusi che offendono illustri esponenti della nostra cultura come Umberto Eco. “Le lauree honoris causae” della prefazione de Il mio Dante, di Benigni, sono uno sconcio. [1] Il complemento di scopo, in Latino, si traduce con causā, oppure gratiā e il genitivo, ma sia causā che gratiā, hanno funzione prepositiva, e sono quindi invariabili, [2] non fungono da apposizione di laurea o di lauree! Lauree honoris causā, dunque, altrimenti le lauree diventerebbero causa dell’“onore” invece di esserne lo scopo, l’effetto! A meno che il prefatore non volesse proprio… dire questo, con acre, ma nascosta ironia! Sta di fatto che già in Rete l’ignoranza ha ripreso l’errore e lo ripete, e lo ripete!»

Infine l’illustre (e non usiamo ironia) semiologo si propone “disinteressatamente” come interprete di Virgilio nel film che suggerisce a Benigni di realizzare sulla Commedia: “L’altra vita è bella”.
Qualche scopo recondito la prefazione doveva pur averlo…

Amato Maria Bernabei

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[1] Ci riferiamo alla prima edizione del libro, ignorando se nella seconda sia stata corretta la “svista” che è ancora rinvenibile nell’archivio del giornale la Repubblica, alla pagina
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/10/17/sogno-un-film-con-benigni-nell-inferno.html
[2] Georges-Calonghi, Dizionario della lingua latina, Rosenberg & Sellier, Torino, 1961, Vol I, p. 432, II colonna, righe X-XVIII.

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