di Enzo Ramazzina
Nel XXXIII canto dell’Inferno, Dante definisce l’Italia “bel Paese, là, dove ’l sì suona”. Con tale espressione vuol significare, tra l’altro, che la nostra penisola, oltre ad essere invidiata per le stupende attrattive paesaggistiche, culturali ed artistiche…
detiene il primato di una lingua che, nonostante le differenze dialettali riscontrabili in ciascuna regione, si distingue per la sua armonia fonica e tonale e – aggiungiamo noi, se non forziamo troppo il pensiero del Poeta – per le sue corrispondenze logiche e semantiche[1].
Ma nel corso dei secoli il valore eufonico della cosiddetta “lingua media”, vista soprattutto nel contesto della letteratura ufficiale, ebbe a subire qualche incrinatura, essendo invalso l’uso di mortificarla con l’introduzione di provincialismi, dialettismi, arcaismi e, in particolare nei tempi moderni, di neologismi e barbarismi. Poco male, per un idioma in continua evoluzione, se, però, queste forme di impurità venissero usate in modo intelligente, cioè con cautela e al fine di conferire al nostro principale mezzo di comunicazione l’opportuna efficacia, e se i suddetti vocaboli e costrutti inusuali, quand’anche ritenuti inevitabili, fossero almeno virgolettati, oppure preceduti o seguiti da espressioni quali, ad esempio, “come si suol dire …”.
Ad inficiare il valore musicale della nostra lingua, inoltre, contribuiscono, oggi più che mai, l’abuso di certi intercalari, la banalità di molte frasi fatte, nonché le troppe ripetizioni del pronome relativo indeclinabile, specialmente nell’uso dell’ipotassi, che nasconde quasi sempre l’insidia sintattica, e il noioso susseguirsi di vocaboli con desinenze uguali.
Se per eufonia intendiamo quel particolare collocamento delle parole destinate a produrre, all’orecchio di chi ascolta, un dolce suono, è facile comprendere, ad esempio, come una proposizione del tipo “Sono andato al mercato ed ho comprato uno stoccafisso stagionato”, ancorché corretta dal punto di vista grammaticale, crei un’impressione sgradevole di suoni disarmonici, a motivo delle quattro rime in “ato” che si susseguono in modo ossessivo. Tale frase, peraltro, si potrebbe aggiustare così: “Sono andato al mercato ed ho scelto uno stoccafisso maturo e di stagione”.
Concretamente, dunque, si raggiunge l’obiettivo del “dolce suono” cercando di evitare la cacofonia, cioè l’incontro di suoni aspri e fastidiosi, o di suoni simili, o la ripetizione noiosa del “che”, o l’uso troppo insistito delle preposizioni “di”, “del”, “dei”, “della” e “delle”, oppure, come dicevamo poc’anzi, l’impiego di desinenze che rimano tra loro.
Per evitare le forme di cacofonia, è opportuno sostituire le parole, che determinano la stonatura, con altre equivalenti, o con appropriati sinonimi, avendo cura, però, di non mutare il senso della frase. Ad esempio, l’espressione “Fatti i fati tuoi!”, per quanto sia entrata nell’uso, potrebbe essere modificata in questo modo: “Pensa per te!”; oppure, semplicemente: “Cavoli tuoi!”. Ma anche con una perifrasi, ossia con una proposizione un po’ più lunga e, magari, meno efficace.
La perifrasi o circonlocuzione, per chi non ricordasse il capitolo della stilistica che tratta delle figure retoriche, consiste nell’usare un giro di parole al posto di una precisa e secca annotazione. Così, ad esempio, invece di scrivere “la primavera”, specie se il vocabolo risulta già impiegato all’interno del testo, si potrà usare la frase “la stagione dei fiori”; anziché ripetere la parola “terra”, si potrà ricorrere all’espressione “valle di lacrime”, benché si tratti di un luogo comune piuttosto abusato. E Garibaldi potrebbe diventare, ovviamente, “l’eroe dei due mondi”…
Evitare, inoltre, le allitterazioni, cioè le ripetizioni di sillabe uguali e vicine, ma appartenenti a parole diverse, come in questo esempio: “La discussione fra il frate e don Rodrigo si protrasse a lungo”, dove è evidente che i due “fra” consecutivi creano una stonatura. E se, per caso, avete scritto: “Certi cervi hanno le corna corte”, per non correre il rischio di cadere nel ridicolo, vedete di cambiare la frase in questi termini: “Alcuni cervi non hanno le corna lunghe”.
Il linguista Marcello Aurigemma osserva, tuttavia, che “l’eufonia non è solo qualcosa di esteriore, non deriva dalla volontà insita nello scrittore di accarezzare l’orecchio del lettore e, quindi, di pervenire esclusivamente ad un piacere dei sensi”, perché “quando la frase, come suol dirsi, suona bene, questa condizione rappresenta il segno esteriore del fatto che l’immagine o il pensiero è chiaramente contemplato dallo spirito dell’autore, il quale, pertanto, riesce ad esprimerlo bene”. In altre parole, ogni autentica espressione artistica, secondo il noto critico, è sempre eufonica, anche se semplicissima.
Crediamo, a questo punto, sia superfluo sottolineare che le regole dell’eufonia non possono comunque essere ignorate o disattese da chi è impegnato a scrivere versi, dal momento che esiste persino un detto secondo cui i poeti – talora rappresentati con la lyra in mano – “cantano”.
Ricordiamoci, infine, che la ricerca della proprietà in genere, e del temine preciso in particolare, fra i sinonimi possibili, è una fase molto importante, per non dire essenziale, sia per i grandi artisti che per qualunque scrivente non ancora disaffezionato alla purezza del proprio idioma, di quella operazione consistente nel correggere e limare gli scritti quando si è in procinto d’affidarli alle stampe.
In ogni caso, prima di consegnare uno scritto all’editore, converrà sempre verificare se la stesura del testo sia priva di intoppi e possieda una certa scorrevolezza. Perché offrire al lettore una prosa, o un componimento poetico appesantito e carente di valori musicali, sarebbe come presentare all’ospite – ci si perdoni il paragone azzardato – una porzione di bollito senza il giusto pizzico di sale, o una tazzina di caffé senza lo zucchero.
Enzo Ramazzina
da “La Nuova Tribuna Letteraria”, n. 107
[1] Per “bel Paese” è da intendersi non solo la Toscana, ma tutta l’area italica, dove, per affermare, invece di dire “oc” (lingua provenzale), od “oil” (lingue regionali di Francia all’epoca di Dante), si pronuncia “sì”, avverbio di particolare efficacia fonica. Peccato che anche questo sonoro monosillabo oggi tenda ad essere sostituito – per i motivi sopra accennati – dall’inglese “okey”, il quale, in quanto a valore fonico e tonale, lascia un po’ a desiderare.