di Desirée D’Anniballe
“Secondo lo scrittore Jorge Luis Borges, l’idea dello Zahir viene dalla tradizione islamica, e si ritiene sia nata intorno al XVIII secolo. Zahir , in arabo, vuol dire visibile, presente, incapace di passare inosservato. Qualcosa o qualcuno che, una volta che si è stabilito il contatto, finisce per occupare a poco a poco il nostro pensiero, fino al punto che non riusciamo più a concentrarci su nient’altro. E ciò può essere considerato santità o follia.”

Da questo concetto prende spunto Paulo Coelho nella stesura de “Lo Zahir” , edito dalla Bompiani nel 2005. Il romanzo appartiene a quella tipologia di libri che bisognerebbe leggere più d’una volta per comprenderne appieno il messaggio trasmesso.
Protagonista della storia narrata è un famoso scrittore di successo (alter ego dello stesso Coelho?) che si ritrova a dover affrontare una delle fasi più distruttive nella vita di un uomo: l’abbandono da parte della moglie Esther.
Esther che, pian piano, inizia a riempire ogni pensiero del marito, fino ad occupare l’angolo più nascosto della di lui mente. Fino a diventare l’ossessione, la febbre, lo Zahir.
Ma il racconto dello scrittore brasiliano non si ferma alla storia di questo abbandono. Il concetto di Zahir, infatti, viene sviscerato, analizzato nei suoi molteplici significati:
“Ora mi rendevo conto che uno Zahir era ben più di un oggetto che ossessiona un essere umano […]. Lo Zahir era la fissazione su ciò che era stato trasmesso di generazione in generazione, che non lasciava nessuna domanda senza risposta, occupava tutto il nostro spazio, non ci permetteva mai di prendere in considerazione l’ipotesi che le cose cambiassero.”

La vera tragedia, insita in queste pagine, è quella di cui ognuno di noi può sentirsi protagonista. Siamo il frutto di una storia che ha stabilito tutto per noi.
Seguiamo regole che sono state “scritte” da altri, altri di cui non sappiamo niente o poco, vissuti in epoche che ci sono state narrate -arbitrariamente- e di cui non conosciamo la verità vera.
Oggi dobbiamo sposarci, avere figli, perpetuare la specie. Poiché facciamo parte di una società organizzata, si deve accettare di lavorare in un campo che detestiamo: se tutti facessero ciò che desiderano, il mondo non andrebbe più avanti, continua Coelho.
Questo è, quindi, il vero dramma “raccontato” nella realtà della vita che conduciamo, come automi, ogni giorno. Non ci poniamo domande su noi stessi, su quanto facciamo, non ci chiediamo se questo nostro “fare” sia ciò che davvero esprime la nostra più profonda essenza.
E se qualche volta, per un tragico errore di percorso, una di queste domande fa capolino sulla soglia della nostra coscienza, convogliamo tempestivamente tutte le nostre energie nel tentativo di risprofondarle nell’abisso.
Viviamo come se appartenessimo ad un gregge guidato nella direzione che il pastore ha stabilito.
Temendo la nostra autentica identità, con il terrore di essere classificati come “diversi”.

Paulo Coelho ci apre gli occhi su una realtà agghiacciante che è l’origine del nostro sentirci perennemente insoddisfatti, sempre alla ricerca di “quel che non c’è”.

Desirée D’Anniballe