“Far leggere Dante a Benigni equivale all’incirca a far leggere Shakespeare a Benny Hill. Non voglio essere caustico, tuttavia è difficile non esserlo nel momento in cui l’attore toscano pretende un cachet di un milione e mezzo di euro per una singola serata di recitazione dantescaobbedire al sistema commerciale sfruttando Dante è un abuso. Chiedere un milione e mezzo di euro per massacrare Dante è un crimine”. (Emanuele Scicolone, Il Leviatano).

I DUE VOLTI DELLA DIVINA COMMEDIA

di Emanuele Scicolone

Vittorio Gassman e Roberto Benigni. Il primo è stato probabilmente il più grande attore italiano e uno dei più importanti a livello mondiale, un raffinato intellettuale, un interprete poliedrico e versatile. Il secondo è un comico fiorentino, autore di uno dei film più sopravvalutati del nostro cinema, La vita è bella, oggi in tour con tuttodante, spettacolo teatrale semiserio su Dante.

C’è stato un Benigni che faceva Benigni, e riscuoteva ottimo successo. Piaceva perché era genuino, e non voleva esser niente di più di se stesso. Chi non lo ricorda ne Il piccolo diavolo, commedia brillante di rara intelligenza, o nei divertenti Johnny Stecchino e Il mostro? A quei tempi Roberto Benigni era regista e attore. Un ottimo risultato, si potrebbe pensare. Dopodiché accade l’irreparabile. Per sfruttare il successo e la toscanità di Benigni, improvvisamente quest’ultimo è stato improvvisato cantore dantesco. In un’Italia in cui la Divina Commedia non si conosce, si studia male a scuola e, purtroppo, non interessa, chiaramente un Benigni diventa la reincarnazione di Dante Alighieri. Impossibile non dimenticare la sua interpretazione cantilenante, più simile a uno stornello o a una filastrocca, priva di dizione, in cui Benigni non mette di proprio neppure i pensieri, considerato che chiaramente ogni sua parola è stata scritta da qualcuno per lui. Far leggere Dante a Benigni equivale all’incirca a far leggere Shakespeare a Benny Hill. Non voglio essere caustico, tuttavia è difficile non esserlo nel momento in cui l’attore toscano pretende un cachet di 1 milione e mezzo di euro per una singola serata di recitazione dantesca. La serata, chiaramente cancellata a causa dell’elevatissimo costo, era prevista per questo dicembre. E pensare che stiamo parlando della stessa persona che una volta, davanti all’Italia intera e in prima serata, ha elencato cento modi di denominare l’organo riproduttivo maschile… Si è accennato a Shakespeare. Come quest’ultimo anche Dante ha una sua prepotente severità e solennità, e non può essere recitato da chiunque, per la stessa ragione che non è un testo che chiunque potrebbe scrivere. Negare questo fatto è una profanazione, obbedire al sistema commerciale sfruttando Dante è un abuso. Chiedere 1 milione e mezzo di euro per massacrare Dante è un crimine. La memoria degli italiani è – ahinoi! – corta e discutibile. Sono passati solo 10 anni dalla dipartita dell’immenso Vittorio Gassman, uno dei più grandi interpreti di Dante e della sua opera, eppure gli italiani non ne hanno più memoria. Ma perché, seppur non c’è paragone tra Gassman e Benigni, il secondo ha avuto questo enorme successo? Per il semplice fatto che questi ha ridotto la potenza della Divina Commedia a quella di un qualsiasi Carosello popolare. In questo modo, chiunque ha avuto il sentore di “partecipare” all’opera dantesca e alla sua grandezza. In realtà ha partecipato esclusivamente a uno show di Benigni.

Dante Alighieri, autore di un’opera soprannaturale e mistica, ne è uscito male. Benigni ci ha insegnato che Dante fa parte di quella colonna di scritti recitabili da chiunque e che chiunque, senza gran impegno, può permettersi di far suo. Perché il Dante di Benigni è privo di devozione, di sentimento, di musicalità, di ritmo, di ispirazione, di fuoco sacro. Riascoltando Gassman, come un serpente antico sembra risorgere dalle viscere per strappare l’anima: è il demone dell’arte. Gassman ci fa immergere tra i dannati quando recita un canto dell’Inferno, solamente per farci planare nella diafana regione del Paradiso con un cenno o una parola. La sua recitazione è impeccabile, più simile a un testo teatrale, pur senza perderne in musicalità e ritmo. La sua voce si fa misterica e sotterranea, piena di foglie autunnali e di radici, solamente per rinascere come una lancia di gigli e rose. Benigni invece non recita. Ripete a memoria le terzine apprese, sempre con la stessa cadenza, sempre con quella monocorde aritmia che rischia di fare andare ai pazzi chiunque abbia una minima conoscenza di drammaturgia. Si potrebbe paragonare a una goccia d’acqua che seguita a battere sullo stesso punto del cranio fino alla sua inesorabile rottura. Il flusso acquifero di Gassman invece è come la sorgente improvvisa che disseta colui che ha attraversato il deserto. Principalmente la differenza è che Gassman è attore di teatro, un intellettuale raffinato, Benigni invece è un guitto – non in senso spregiativo, sia ben chiaro -, un attore che ha successo solamente nella sua regionalità. Molta confusione in Benigni. E la si può percepire anche da uno dei suoi ultimi film, La tigre e la neve, in un certo qual modo concepito sotto l’ebbrezza dantesca. Il protagonista (lo stesso Benigni) è autore della silloge eponima, di ispirazione dantesca. Fa sorridere il fatto che il titolo tuttavia ricordi di più una raccolta haiku piuttosto che un’opera dantesca. Il New York Times etichettò il film come “un affronto bruciante all’intelligenza degli italiani, degli iracheni e del pubblico cinematografico ovunque“. Paradosso dei paradossi, visto che il film non è altro che una versione più aggiornata ma altrettanto buonista de La vita è bella, pellicola pluripremiata agli Oscar. Quel che è triste è che Benigni era un buon attore comico, adesso è solamente un pessimo attore drammatico. Ricordo alcune letture di Gassman. Senza essere pedante e accademico, interpretava Dante e il pubblico stava in un solenne silenzio fino all’ultima parola. Dopodiché esplodeva in un’ovazione. Non si ascoltavano risate o commenti come accade con Benigni. Il pubblico di Gassman non aveva bisogno di capire e interpretare le sue parole. Le avvertiva nel profondo dell’anima, perché giungevano dall’alto. Benigni invece ha preso la Divina Commedia e l’ha resa l’ennesimo mezzuccio per parlare e nemmeno troppo velatamente di politica, tirando in ballo il solito Berlusconi. Dante e politica di parte nel medesimo calderone. Tutto questo è emblematico, fa paura e non dovrebbe essere trascurato: in Italia, oggigiorno, tutto è profanabile. E di questa violenza i telegiornali non ne parlano mai.

J’accuse!

 

Il Leviatano, novembre-dicembre 2010, pp. 6-7

oppure http://issuu.com/leviatano/docs/il_leviatano_quarto_numero

(link “articles”)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *