Ascolto… un tempo termine significativo di conoscenza, segmento rilevante del sapere, assume oggi sempre più un valore immediato, pratico, produttivo, dunque di mercato. Muta anche la sua forma in una più consonante trasposizione anglosassone: audience; la semantica cede il posto ad un fattore più strettamente numerico. Nel nome di questa nuova divinità tutto è lecito (o quasi?). Sicché l’efferato delitto di una ragazzina maturato nell’ambiente familiare scatena un uragano mediatico inarrestabile di proporzioni smisurate. Si stravolgono palinsesti, gran parte delle programmazioni si concentra sull’evento, che diventa nel quotidiano inquietante presenza. Si clonano trasmissioni; ognuno avoca a sé la migliore tenuta morale, ciascuno giustifica con enfatiche argomentazioni la necessità di ‘capire’ ciò che magari comprensibile non è. E la giostra inarrestabile ruota attorno al suo baricentro virtuale.

In un tale marasma, nell’avvicendarsi frenetico di esperti ed opinionisti di lungo corso accanto a colleghi dell’ultima ora e ad improvvisati faccendieri della deduzione, germogliano inevitabili errori di ogni genere che oltre a dare la dimensione dell’eccesso, palesano l’incontenibile ignoranza imperante.

Esemplare, a tal proposito, quanto accaduto qualche sera fa in una trasmissione televisiva molto seguita. Allo psichiatra A. Meluzzi che chiedeva ad Emilia Velletri, avvocato difensore di Sabrina Misseri, se fossero emersi dati concreti nelle indagini fatte dalla difesa per proprio conto, l’avv. Velletri rispondeva testualmente:

“Io volevo innanzitutto specificare che noi abbiamo fatto indagini, ma sono per noi, come per tutti, difensive, cioè noi non vogliamo accusare nessuno. A noi interessa innanzitutto escludere la responsabilità di Sabrina Misseri che è la nostra assistita. Parlo al plurale maiestatis perché mi riferisco ovviamente anche a mio marito che ha condotto molto più di me questo genere di investigazioni”.

Ora, lungi dal desiderio di voler salire sulla giostra cui si faceva riferimento prima, vorrei soltanto far notare che il pluralis maiestatis (‘plurale maiestatis’, parlando a braccio, ci può anche stare!) ha un significato completamente diverso, che noi ragazzini delle medie già conoscevamo bene. La traduzione letterale di ‘plurale di maestà’ risolve da sola il caso. Come recita giustamente Cesare Marchi con una vena neanche tanto sottile di ironia, “negli atti ufficiali re e pontefici usano il pronome noi, invece del pronome io, contenitore troppo stretto per la loro augusta autorità”. Quello usato dall’avvocato era un semplice, semplicissimo, normale plurale.

Povera ‘maestà’, va perdendo anche gli ultimi residui di un passato più glorioso!

Sandro Bernabei

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *