La depressione, si sa, è il male dell’epoca, non soltanto come patologia dell’umore, ma anche come sindrome di una grave decadenza del valore, frutto del prevalere incondizionato delle logiche del profitto. In un contesto nel quale la vendita è il primo obiettivo, la “qualità” del prodotto non è più la sua intrinseca buona qualità, ma la sua capacità di riscuotere consenso e di ottenere smercio.

GR1, 29 Marzo 2006, ore 08,25 circa: “…io teorizzo per Sartorio quello che è un puer aeternum” (Renato Miracco, critico d’arte e storico, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York dal 2007 al 2009, curatore della mostra in onore del pittore “dimenticato” Giulio Aristide Sartorio, intervistato da Gianfranco De Turris). Un fanciullo (puer) sarà mai di genere neutro (aeternum)? puer aeternus, caro spocchioso critico-storico-manager della cultura! o fa’ a meno di usare espressioni latine!

La depressione, si sa, è il male dell’epoca, non soltanto come patologia dell’umore, ma anche come sindrome di una grave decadenza del valore, frutto del prevalere incondizionato delle logiche del profitto. In un contesto nel quale la vendita è il primo obiettivo, la “qualità” del prodotto non è più la sua intrinseca buona qualità, ma la sua capacità di riscuotere consenso e di ottenere smercio. Da questo criterio, la malattia, e tutto il corredo dei suoi sintomi, che si cronicizzano e si aggravano. Il tenore generale della cultura si abbassa gradualmente, come il livello dei corsi d’acqua nei periodi di siccità. Non si fa più in tempo a registrare e ad enumerare tutti gli episodi di violazione della decenza da parte dei protagonisti dello scenario culturale italiano, e non solo. Paradossalmente l’enfasi pubblicitaria dà l’impressione che mai, come in questa epoca, i “grandi” siano stati tanti, e tutti degni dei più alti meriti e dei più ambiti riconoscimenti.

Questa volta soffermiamo l’attenzione su uno dei sommi “letterati” contemporanei: il Premio Nobel per la Letteratura 1997, Dario Fo. Tralasciamo il fatto che del Premio che gli è stato conferito non sono stati ritenuti degni autori “mostruosi” come Jorge Luis Borges, ed occupiamoci piuttosto dello spessore del nostro saltimbanco. Nel 2009, nel corso di una Puntata di Radio anch’io, il conduttore Giorgio Zanchini intervista Dario Fo e gli chiede di illustrare le ragioni della sua propensione al popolare, al giullaresco, i motivi della scelta di rappresentare sul palcoscenico la storia con la “esse minuscola”. La risposta del dotto Nobel è fra le sue cose più esilaranti…:

Io volevo ricordare una cosa: che… Dante Alighieri, prima di iniziare la sua carriera e soprattutto incominciare a scrivere il… un’opera veramente mondiale, veramen… che non, che non ha quasi uguali, eeee… ha compiuto un’inchiesta, che è durata qualche anno, raccogliendo tutti i testi volgari, appunto, della poesia giullaresca, e l’ha chiamata DE VULGARIS ELOQUENTIAM!!! Ecco, hmm… poche co… Pochi sanno di questo particolare: naturalmente gli eruditi lo sanno, i colti lo sanno, ma la gente e a scuola non lo si racconta maiDe vulgarIS eloquentiAM

Stendiamo un velo sulla forma. Resta un assurdo, improponibile contenuto, del quale stiamo per occuparci: non prima di aver fatto notare, però, che il titolo dell’opera dantesca è DE VULGARI ELOQUENTIA, e che a braccio Dario Fo tradisce una precaria conoscenza della materia… Il “de” richiede l’ablativo nel complemento di argomento, non certo il nominativo o il genitivo (vulgari, dunque, non vulgaris), né tanto meno l’accusativo (eloquentia, non eloquentiam). Torniamo ai “concetti” che Fo elabora. Grave ci sembra il fraintendimento per il quale egli considera il De vulgari eloquentia come uno scritto a favore di una lingua di uso “popolare, marginale”, aggettivi di cui il conduttore Giorgio Zanchini si serve per qualificare l’orientamento “artistico” del Premio Nobel. Tanto è vero che, se può essere mossa una critica all’Alighieri, questa è di aver teorizzato in maniera esclusiva a favore del “volgare” letterario. Scrive il Sapegno: “L’errore di Dante nel De vulgari eloquentia è di aver sentito la coscienza dell’arte in modo così forte da sopravvalutarla, trascurando o deprimendo l’uso comune, parlato e non letterario, della lingua”. E più oltre: “Il De vulgari eloquentia è l’affermazione teorica della nuova poesia italiana, poesia dotta ed aristocratica alla quale non possono salire se non quelli in cui sia ad un tempo incendio e scienza”; ed ancora: “Il significato profondo del De vulgari eloquentia è appunto in questa vigorosa consapevolezza dell’opera preminente degli scrittori nella formazione del linguaggio di un popolo…” (Natalino Sapegno, Disegno storico della Letteratura italiana, La Nuova Italia, Firenze, 1974).

Per di più chi ascolti Dario Fo non conoscendo l’opera dell’Alighieri potrebbe immaginare che questa sia una raccolta di testi scritti in volgare, una sorta di corposa antologia, frutto di anni di meticolosa ricerca… Ma Dario Fo ha letto l’opera? Scrive Manzoni: Al libro De Vulgari Eloquio è toccata una sorte, non nova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d’esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno…” (Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari Eloquio).

Il De vulgari eloquentia, scritto in Latino fra il 1304 e il 1308 (non all’inizio della “carriera” di Dante, come vuole l’erudito Premio Nobel), è un trattato rivolto ai letterati di professione, di estrazione borghese (non proprio adatto, dunque, a suffragare l’inclinazione di Dario Fo verso la tradizione popolare e giullaresca) e vuole definire un idioma volgare che possa conseguire un’alta dignità letteraria, elevandosi al di sopra delle varie parlate regionali e sottraendosi all’egemonia del Latino” (http://www.homolaicus.com/letteratura/de-vulgari.htm).

A chi a bocca spalancata esprime la sua meraviglia per i miti del nostro tempo, bisognerebbe far capire come stanno le cose… ma, per dirla con l’illustre Dario Fo, “la gente non lo si racconta mai”.

Amato Maria Bernabei

Apri e salva: La divulgazione dell’ignoranza 02 Dario Fo

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