La letteratura latina volge al termine alla fine del V secolo d.C.; quella italiana fa la sua prima apparizione verso il 1200: ben sette secoli intercorrono tra la fine dell’una e l’inizio dell’altra. Origini illuministiche – ma le premesse sono nel pensiero umanistico e nella storiografia protestante – ha la nozione di Medioevo come età di decadenza e dissolvimento: l’età nella quale lo spirito umano si estenua e ristagna in una squallida miseria, e ogni luce di civiltà si spegne e scende sul mondo la caligine densa dell’ignoranza e della barbarie…  

  

Apri e salva: Il Medioevo 

ASPETTI IDEOLOGICI E LETTERARI  

“La letteratura latina volge al termine alla fine del V secolo dopo Cristo; quella italiana fa la sua prima apparizione verso il 1200: ben sette secoli intercorrono tra la fine dell’una e l’inizio dell’altra…  

Origini illuministiche -ma le premesse sono nel pensiero umanistico e nella storiografia protestante- ha la nozione di Medioevo come età di decadenza e dissolvimento: l’età nella quale lo spirito umano si estenua e ristagna in una squallida miseria, e ogni luce di civiltà si spegne e scende sul mondo la caligine densa dell’ignoranza e della barbarie. La notte medievale che sta tra il pallido crepuscolo della civiltà antica, nei “bassi tempi imperiali”, e l’alba della rinascita, agli esordi della civiltà moderna.  

Contro la valutazione illuministica del medioevo sta il giudizio positivo dei romantici: che il medioevo pongono come un periodo non di desolato squallore e di torpida inerzia e insomma di mortificazione dello spirito umano, ma anzi di vigorosi fermenti e di creazioni feconde; tanto che nel medioevo sarebbero da riconoscere le vive sorgenti della moderna civiltà europea.  

Tuttavia, in un dato essenziale la nozione romantica concorda e anzi si identifica con la nozione illuministica: nel secolo V (o IV o VI o VII: i termini cronologici variano, com’è noto, da autore ad autore), per l’avvento irresistibile della barbarie, il mondo occidentale sarebbe ridotto allo stato di natura: alla condizione del mondo umano primitivo e selvaggio.  

È fondamentale nella visione romantica -e vi si riconosce chiaramente l’eredità del pensiero vichiano- questo mito del primitivo come fonte di vita vera; l’idea cioè che ogni civiltà vera ed autentica non può nascere se non da un “ricominciare da capo”; che ogni civiltà, in altre parole, compiuto il suo ciclo vitale, deve necessariamente dissolversi…  

…È quindi comune alla nozione illuministica e a quella romantica di medioevo l’idea di una fine della civiltà antica; di una frattura profonda tra mondo antico e mondo moderno. È comune, in particolare, l’idea dell’esaurirsi e dello spegnersi, a un certo momento, della tradizione letteraria classica: e di questo esaurirsi concordemente si pone come segno e documento il latino medievale, sia quello dei testi letterari, sia -e ancor meglio- quello delle carte e dei diplomi…  

Obbiettivamente considerata, la storia del latino nel medioevo smentisce nel modo più reciso la nozione, illuministica e romantica, di una frattura nella tradizione culturale e letteraria e rivela luminosamente l’ininterrotta continuità della tradizione classicistica.” (A. Viscardi, Le Origini, Ricciardi Editore, 1956)  

Dunque “agli studiosi d’oggi il Medioevo appare come un’epoca interessantissima nella quale, come in un immenso crogiuolo, vennero a confluire la civiltà latina e la nuova civiltà scaturita dal Verbo cristiano: dalla loro travagliata e reciproca conciliazione, assimilazione ed integrazione, nasce la moderna civiltà occidentale.   

La civiltà latina aveva carattere universale perché in essa erano venute a convergere le più antiche civiltà del mondo greco-orientale: di questa universalità si fece erede ed interprete la Chiesa, che  

–  ne conservò la lingua e  

–  ne mutò la concezione pagana della vita in una concezione trascendente, che additasse all’uomo l’esistenza terrena non più fine a se stessa, ma protesa verso la sopravvivenza eterna dell’anima;  

–  ne accolse i testi profani, ma sovrappose ad essi una interpretazione allegorica tale da permettere di scoprirvi riposti significati morali e religiosi;  

–  ne accolse la tradizione degli studi liberali (Trivio e Quadrivio), ma soltanto in funzione propedeutica allo studio della Teologia;  

–  affiancò al diritto umano, che ci rende responsabili delle nostre azioni dinanzi alla società, un diritto divino, che fa sentire all’uomo la sua assoluta dipendenza dall’Essere Supremo;  

–  considerò la successione degli eventi terreni, vale a dire la Storia, come il preordinato disegno di una imperscrutabile provvidenzialità divina.  

 Fu indubbiamente, questa,  

–  una profonda rielaborazione della civiltà e della cultura classiche, ma è d’altra parte  

–  una convincente testimonianza della sopravvivenza di detta civiltà e di detta cultura in tutto l’arco del Medioevo;  

monaci, chierici, grammatici, raccolgono e leggono gli autori classici perché  

 –  tutti, Padri e dottori, sono convinti che non si possa giungere alla piena conoscenza della verità superiore senza l’ausilio delle arti liberali del Trivio (Grammatica, Retorica, Dialettica) e del Quadrivio (Aritmetica, Geometria, Astronomia, Musica): ad esse aggiunsero le “divinae litterae” (interpretazione della Scrittura e della Teologia).  

–  Aggiungasi il non mai tramontato mito della grandezza esemplare di Roma,  

–  il rimpianto costante di uno splendido passato,  

–  l’ansia di un profondo rinnovamento civile che alimenta, dapprima il risorgere dell’idea imperiale, poi la costituzione del Comune (primo atto del definitivo affrancamento del servo della gleba dalla schiavitù feudale),  

–  la lenta e graduale formazione di un laicato colto (giuristi, notai, avvocati) le cui vicende sono strettamente collegate alle vicende del nuovo ceto economico, artigiano e mercantile destinato a reggere le sempre più fiorenti sorti dello stesso Comune  

 e si avrà la più chiara riprova che il Medioevo non può essere considerato epoca di sterilità culturale, e, più semplicemente, di oscura decadenza.  

Logicamente una così vasta e profonda azione di rielaborazione e conservazione non poté essere immune da violenti contrasti e polemiche, cui sono da aggiungere non poche deviazioni nel seno stesso della Chiesa. Vi furono secoli di fervida operosità culturale e spirituale (vedi i cosiddetti “rinascimenti” carolino e sassone legati alla corte di Carlo Magno ed alla corte degli Ottoni), ed altri caratterizzati dall’immobilismo e dalla paralisi dovuti alle non infrequenti lotte politiche e sociali.  

La prima cultura medioevale è rappresentata da Severino Boezio (480-524) ed Aurelio Cassiodoro (490-583): nelle opere di entrambi appare evidente l’accostamento, più ancora che la fusione, di elementi classici ed elementi cristiani. Di Boezio, già ministro di Teodorico e da questi incarcerato e poi giustiziato, è uno dei libri più famosi nel Medioevo, il De consolatione philosophiae: vi si immagina che la filosofia, sotto figura di una veneranda matrona, gli appaia in carcere e lo inviti, sulla scorta di motivi stoici, a staccarsi dai beni terreni per innalzarsi alla verità ed a Dio. Di Cassiodoro sono i dodici libri delle Variae, una raccolta di lettere ufficiali che costituiscono un modello esemplare di stile curiale, e dalle quali traspare il costume di tutta un’epoca, con le sue componenti politiche e sociali.  

La figura più rappresentativa dell’età longobardica è lo storico Paolo Warnefrido, meglio conosciuto come Paolo Diacono (720-799). Egli testimonia la tenace sopravvivenza della tradizione dotta nonostante il generale affievolimento del sapere dovuto alle invasioni barbariche: nella sua Historia langobardorum ci dà un quadro colorito, talvolta commosso, molto spesso fantastico, delle vicende del suo popolo, dalle antiche origini mitiche alla morte del re Liutprando.  

L’attività letteraria offre segni indubbi di risveglio verso la fine del X secolo: ne sono fattori importanti  

–  il significato religioso che la consacrazione di Carlo Magno a Sacro Romano Imperatore aveva conferito all’idea di un nuovo impero universale di Roma , e  

–  la comparsa sulla scena politica di una nuova classe sociale, la borghesia, forza indiscussa del Comune.  

Il ricordo dell’antica grandezza torna a dominare e dà vita ad innumerevoli iniziative.  

*  Ora sono i Comuni che ricercano in antichi eroi i loro mitici fondatori,  

*  ora sono scuole che si volgono a coltivare le scienze più vicine alle attività umane: nasce a Salerno, nel secolo XI, una celebre scuola medica fondata da Costantino Afro; a Bologna, una scuola di giuristi raccoltisi attorno ad Irnerio, profondo conoscitore e chiosatore del diritto romano, riceve nel 1158 dall’imperatore Federico I il riconoscimento ufficiale di Università, la prima in tutta Europa.  

Cronisti desiderosi di tramandare ai posteri i fatti più salienti della loro città, del loro convento, della loro abbazia, lasciarono opere interessantissime, o per la ingenuità della narrazione, come il Chronicon Novaliciense di un anonimo, o per dovizia di notizie attinte ai documenti d’archivio, come il Chronicon Monasterii Cassinensis di Leone Marsicano. Fra tutte un particolare rilievo assumono due cronache, l’una già in volgare e l’altra ancora in latino: la Cronaca fiorentina di Ricordano Malispini (1220-1290) ed il Chronicon Parmense di fra Salimbene. La Cronica di Malispini, e prende le mosse dalle origini di Fiesole e di Firenze, costituì indubbiamente per Dante una fonte preziosa di notizie su vicende e personaggi del tempo per la sua Divina Commedia; libro di ricordi, più che cronaca nel significato proprio del termine, fu il Chronicon di fra Salimbene, che, giunto alla vecchiaia, volle tracciare un compendio degli avvenimenti svoltisi nella sua città natale, inscritti in un quadro generale della storia d’Italia, ed a volte d’Europa.” (De Bernardi-Lanza-Barbero, Letteratura italiana, SEI, vol. I, pp. 7-9)  

                         RIEPILOGO SCHEMATICO  

 –  Negativa valutazione illuministica del Medioevo  

–  Giudizio positivo dei romantici  

–  Elementi comuni alla nozione illuministica ed a quella romantica: il Medioevo come frattura profonda tra mondo antico e mondo moderno  

–  Rivalutazione della critica moderna: il Medioevo come momento di confluenza della civiltà latina e di quella cristiana  

–  L’universalità della civiltà latina ereditata e rielaborata dalla Chiesa  

–  Principali elementi di rielaborazione:  

        fine escatologico dell’esistenza  

        interpretazione allegorica dei testi profani  

        le scienze liberali come studio propedeutico alla Teologia  

        diritto umano e diritto divino  

        la storia come disegno preordinato della Provvidenza  

– Elementi che avvalorano la rivalutazione del Medioevo:  

         sopravvivenza della cultura classica  

         mito della grandezza esemplare di Roma  

         rimpianto dello splendido passato  

         ansia di un profondo rinnovamento civile (risorgere dell’idea imperiale, costituzione
    del Comune)  

         ascesa della borghesia  

–  Il processo di rielaborazione e conservazione che si attua durante il Medioevo presenta violenti contrasti  

–  Documenti di letteratura medioevale:  

        Severino Boezio: De consolatione philosophiae  

        Aurelio Cassiodoro: Variae  

        Paolo Diacono: Historia langobardorum  

        I cronisti  

 ASPETTI SOCIO-POLITICI, ECONOMICI E SPIRITUALI 

                                                               DELLA CRISI DELL’IMPERO ROMANO   

“La storia del Medioevo, secondo la cronologia tradizionale, ha inizio il 4 Settembre 476, quando l’ultimo imperatore romano di Occidente fu deposto dal barbaro Odoacre. In realtà ebbe una genesi assai più lunga e graduale, e fu il risultato di un triplice ordine di fattori, indipendenti sulle prime l’uno dall’altro, col IV secolo invece operanti in maniera strettamente connessa, e precisamente:  

1)  la lenta trasformazione che si veniva svolgendo nell’Impero stesso  

2)  l’erosione che dei principi basilari di questo Impero operava il Cristianesimo  

3)  l’irruento assalto dei barbari.  

 Comunque per il periodo iniziale la storia del Medioevo si compendia in una sola espressione: migrazione di popoli.  

        Crisi economico-sociale  

Già sul finire del II secolo la storia dell’Impero romano comincia ad apparire come un lungo periodo di decadenza, accompagnata però ancora da vigorosi sforzi di ripresa.  

L’eccessiva urbanizzazione dell’Impero aveva finito  

–  col creare delle enormi masse proletarie, che l’erario imperiale doveva mantenere con distribuzioni gratuite di grano, e  

–  con lo spopolare le campagne, ove il piccolo proprietario, coltivatore diretto, tendeva sempre più a scomparire a tutto vantaggio dei latifondi senatoriali ed imperiali.  

La situazione nel settore rurale era inoltre aggravata  

–  dall’angosciante crisi demografica del periodo imperiale  

–  dal carattere di vere e proprie razzie di uomini che le leve militari avevano ormai assunto e  

–  dalla generale insicurezza sociale dovuta  

*  al contrasto di classe esistente e  

*  alle terribili rivolte di plebi rurali,  

delle quali abbiamo testimonianza sicura per l’Egitto e le Gallie: molti piccoli proprietari preferiscono cedere il loro podere ad un potente latifondista e diventare suoi coloni in cambio di quella protezione che le autorità imperiali non erano più in grado di assicurare.  

                 Crisi della sicurezza e dell’unità dell’Impero  

Alla crisi della sicurezza sociale si aggiungevano anche  

–  una crisi della sicurezza esterna e  

–  quella della stessa unità dell’Impero:  

›   la prima era provocata dalla pressione sempre più forte che sul confine occidentale esercitavano le barbariche tribù della Germania, le quali venivano come catapultate innanzi dall’ondata migratoria di altri popoli provenienti dall’Asia, e su quello orientale i Parti, tradizionale nemico di Roma, e dopo il 226 i Persiani sassanidi;  

›   la crisi dell’unità era dovuta al risorgere, dopo la conciliazione rappresentata dal dominio di Augusto, dell’antica avversione dei due elementi romano e greco-ellenistico che componevano la pur unica civiltà imperiale.  

Non si trattava tuttavia solo di urto fra Oriente e Occidente: vi era pure qualcosa di nuovo. Difatti la trasformazione politica dell’Impero, la grave crisi economica e sociale che lo travagliava e il senso di insicurezza e di pericolo che, di fronte alla sempre maggiore pressione dei barbari alle frontiere, incominciava a invadere l’animo degli abitanti, determinavano un nuovo fattore di crisi:  

›    la tendenza delle singole province ad opporre alla unità romana le loro forze centrifughe.  

La Siria è un vero focolaio separatista e in Occidente, nel 258-268, si ebbe la costituzione di un effimero regno gallo-ispanico separato.  

                 Crisi spirituale  

Accanto a questi fattori di crisi di ordine materiale ne esistevano altri di ordine spirituale:  

la vecchia religione romana non trovava più rispondenza nell’animo del popolo che era all’ansiosa ricerca di nuove credenze e di nuovi culti. Era, questo, l’aspetto romano di una rivoluzione spirituale di portata mondiale, che l’Oriente aveva prodotto dopo una gestazione secolare, dando, sotto Augusto, il suo frutto più puro: il Cristianesimo. Ma la nuova religione solo dopo un processo secolare di espansione e di lotta diverrà un sostegno per l’Impero; all’inizio sarà anch’essa un’ulteriore causa di disgregazione (per il contributo dato al crollo degli ideali della romanità; n.d.c.).  

Ma sul finire del III e all’inizio del IV secolo tutti questi motivi di crisi furono potentemente contenuti dall’opera riformatrice di alcuni imperatori (Diocleziano, Costantino).” (A. Saitta, Il cammino umano, La nuova Italia, vol. I, pp. IX-XI).    

 STORIA ECONOMICA E SOCIALE DELL’ALTO MEDIOEVO  (SECOLI V-X)  

QUADRO GENERALE  

                 Rottura dell’equilibrio economico dell’antichità  

“Dal punto di vista che qui conviene adottare, appare subito evidente che i regni barbarici fondati durante il V secolo nell’Europa occidentale avevano conservato il carattere saliente ed essenziale della civiltà antica: il carattere mediterraneo.  

Il mare interno attorno al quale erano sorte tutte le civiltà del mondo antico e attraverso il quale queste erano venute in contatto fra loro, che era stato veicolo delle loro idee e dei loro commerci, che più tardi era stato completamente circondato dall’Impero romano, divenendo il punto di convergenza delle attività di tutte le province, dalla Bretagna all’Eufrate, anche dopo le invasioni germaniche non cessò di adempiere alla sua funzione tradizionale. Per i barbari stabilitisi in Italia, in Africa in Spagna e nelle Gallie, il Mediterraneo continuava ad essere la grande via di comunicazione con l’Impero bizantino: col quale consentiva relazioni che facevano sopravvivere una vita economica che è impossibile non considerare come un diretto prolungamento di quella antica….  

Ma in seguito alla brusca irruzione dell’Islam, nel corso del VII secolo, e alla conquista islamica delle coste orientali , meridionali e occidentali del grande bacino europeo, si creò una situazione completamente nuova, le cui conseguenze si fecero sentire molto profondamente nel corso successivo della storia. Il Mediterraneo, millenario collegamento tra Oriente e Occidente, si trasformò in una barriera… A partire dall’inizio dell’VIII secolo non c’è più posto per il commercio europeo in quel grande quadrilatero marittimo…Le coste un tempo unite per comunanza di costumi, di bisogni, di idee, ospitavano ormai due diverse civiltà o, per meglio dire, due mondi estranei e ostili, la Croce e la Mezzaluna. L’equilibrio economico dell’antichità, sopravvissuto alle invasioni germaniche, crollò sotto il peso dell’invasione islamica. I Carolingi impedirono all’Islam di inoltrarsi a nord dei Pirenei, ma non poterono strappargli il dominio del mare, anzi, consapevoli della propria impotenza, non tentarono neppure di farlo. L’Impero di Carlo Magno, in vistoso contrasto con la Gallia romana e con quella merovingia, è un impero meramente terrestre o, se si vuole, continentale. Grande novità da cui scaturisce necessariamente un nuovo ordine economico: quello, appunto, dell’Alto Medioevo…”  

                 Scomparsa del commercio in Occidente  

Poiché dal IX all’XI secolo la navigazione mediterranea scomparve in pratica definitivamente, l’Occidente restò bloccato. “Il movimento commerciale non sopravvisse alla scomparsa della navigazione, che ne era stata l’alimento principale…I documenti di cui disponiamo, disgraziatamente assai scarsi, non lasciano dubbi sul fatto che, fino alla conquista araba, in tutte queste contrade (Africa, Spagna, Gallia; n.d.c.) era esistito un ceto di mercanti di professione, strumenti di un traffico d’esportazione d’importazione del quale si può discutere l’importanza ma non l’esistenza. Fu grazie ad esso che le città romane restarono centri d’affari e punti d’incontro per le correnti di traffico che dalle coste si dirigevano verso il nord e penetravano almeno fino alla valle del Reno, portando seco il papiro, le spezie, i vini orientali e l’olio che erano stati scaricati sulle coste del Mediterraneo.  

Il blocco di questo mare, in seguito all’espansione islamica del VII secolo, provocò necessariamente il deperimento rapidissimo dei traffici, e, nel corso dell’VIII secolo, all’interruzione del commercio fece seguito la scomparsa dei mercanti, e la vita delle città, che era potuta continuare proprio grazie alla presenza dei mercanti, si estinse. Sopravvissero le città romane per una sola ragione: perché, essendo i centri dell’amministrazione diocesana, erano sede dei vescovi che raccoglievano intorno a se un numeroso clero; ma quelle città persero, oltre a qualsiasi parvenza di amministrazione municipale, ogni significato economico. Si manifestò un generale impoverimento. La valuta aurea sparì, per fare luogo alla moneta d’argento che i Carolingi furono costretti a coniare al suo posto: il nuovo sistema monetario, istituito al posto del vecchio soldo aureo romano, è la prova evidente della rottura con l’economia mediterranea…  

                 Regresso economico sotto i carolingi  

È un grosso errore considerare, come si fa di solito, il regno di Carlo Magno come un’epoca di ascesa economica…quello carolingio, dal punto di vista commerciale, è un periodo di decadenza, di regresso. Anche volendo, Carlo Magno non avrebbe potuto arrestare le ineluttabili conseguenze del blocco mediterraneo e della scomparsa dei traffici marittimi.  

È verissimo che tali conseguenze non si fecero sentire nelle regioni del nord con la stessa intensità con cui si fecero sentire in quelle meridionali…  

Talvolta si è creduto che la valle del Danubio si fosse sostituita al Mediterraneo come grande via di comunicazione tra Oriente e Occidente. Ed effettivamente avrebbe potuto divenire un’ottima via di comunicazione, se non fosse stata resa inaccessibile prima dagli Avari e subito dopo dai Magiari…  

                 Carattere agricolo della società a partire dal IX secolo  

Che a partire dalla fine dell’VIII secolo l’Europa occidentale abbia regredito al livello di regione puramente agricola, è cosa evidentissima. La terra divenne l’unica fonte di sostentamento, la sola condizione della ricchezza. A cominciare dall’imperatore, che non disponeva di nessuna rendita all’infuori di quella che gli veniva dalle sue proprietà fondiarie, fino al più umile dei servi, tutte le classi della popolazione vivevano direttamente o indirettamente dei prodotti della terra: sia procurandoseli col proprio lavoro, sia limitandosi a riceverli e a consumarli. La ricchezza mobile non aveva più nessun impiego economico. L’intera vita sociale poggiava sulla proprietà, o sul possesso, della terra.  

Di qui l’impossibilità per lo Stato di mantenere un apparato militare e un’amministrazione che non fossero fondati sulla terra. Per formare un esercito bisognava necessariamente ricorrere ai feudatari; i funzionari dell’amministrazione potevano essere scelti solo fra i grandi proprietari. In queste condizioni, diventava impossibile salvaguardare la sovranità del capo dello Stato: essa continuò a sussistere come principio, ma scomparve di fatto.  

Il sistema feudale in fondo non è altro che il trasferimento dei poteri pubblici nelle mani degli agenti di tali poteri, i quali, per il fatto stesso di detenere ciascuno una parte del territorio, diventano indipendenti e considerano le proprie attribuzioni come parte del proprio patrimonio. In definitiva la comparsa del feudalesimo nell’Europa occidentale durante il secolo IX non è altro che la ripercussione politica del ritorno della società ad una forma di civiltà puramente rurale.  

                 Le signorie feudali  

Dal punto di vista economico, il fenomeno saliente e più caratteristico di questa civiltà è quello della signoria feudale.  

Indubbiamente questa istituzione era nata assai prima e non è difficile determinarne la genesi, che invia ad un passato molto lontano. Nelle Gallie esistevano grandi proprietari prima di Cesare, così come ve n’erano in Germania prima delle invasioni. L’Impero romano aveva lasciato sopravvivere i latifondi gallici, che ben presto si erano riorganizzati seguendo il modello delle strutture fondiarie del popolo vincitore. La “villa” gallica d’epoca imperiale, con la “riserva” destinata al proprietario, e i numerosi appezzamenti dati in censo ai coloni, si adatta benissimo alla struttura organizzativa descritta dagli agronomi italiani a partire da Catone. Senza subire la minima trasformazione essa passò poi attraverso il periodo delle invasioni germaniche, fu conservata tal quale nella Francia merovingia e venne introdotta dalla Chiesa oltre il Reno, a mano a mano che quelle contrade venivano convertite al Cristianesimo.  

                 Mancanza di sbocchi  

L’organizzazione feudale non era quindi in nessun modo un fatto nuovo. Ma nuovo fu, per così dire, il suo funzionamento, a cominciare da quando scomparve il commercio e si spense la vita cittadina. Finche il commercio era stato in grado di assicurare il trasporto dei prodotti, e le città avevano offerto, al commercio, dei mercati, la grande proprietà feudale aveva avuto la possibilità, e l’aveva utilizzata, di vendere regolarmente al di fuori dei propri confini i suoi prodotti. Essa faceva parte dell’attività economica generale come produttrice di derrate economiche alimentari e come consumatrice di oggetti fabbricati.  

In altri termini conduceva un’economia di scambio.  

Ma a un certo momento l’attività di scambio venne a cessare, poiché non esistevano più ne mercanti, ne popolazioni cittadine. A chi vendere, se non c’erano più compratori? Dove smerciare i prodotti, che nessuno richiedeva, perché nessuno ne aveva bisogno? Ognuno viveva dei prodotti della sua terra, e non cercava più l’aiuto degli altri; in mancanza di una qualsiasi domanda dei suoi prodotti, il produttore agricolo fu costretto a trasformarsi in esclusivo consumatore degli stessi. Ogni feudo ormai si dedicava a quel tipo di economia che è stata impropriamente chiamata “economia dominicale chiusa”, ma che in realtà altro non era che un’economia priva di sbocchi.  

La trasformazione non fu quindi spontanea, ma obbligatoria. Non si vendeva più non perché mancasse la volontà di vendere, ma perché mancavano gli acquirenti. Ci si dovette adattare alla situazione. Il feudatario fu costretto ad adattarsi a vivere dei prodotti della sua riserva e delle prestazioni dei suoi contadini, fu anche costretto a procurarsi da se, visto che non poteva ottenerli altrove, gli utensili necessari alla coltivazione e le vesti per i propri domestici. Di qui il formarsi di quelle botteghe, di quei “ginecei”, che sono caratteristici dell’organizzazione feudale dell’Alto Medioevo, e hanno appunto lo scopo di sopperire alla carenza del commercio e dell’industria.  

                 Il commercio occasionale  

Era naturale che un simile stato di cose fosse inevitabilmente esposto alle sorprese del clima. Quando un raccolto andava male, dopo che si erano rapidamente esaurite le provviste ammassate in vista delle carestie, occorreva darsi da fare per procurarsi l’indispensabile grano. Si inviavano in vari luoghi della regione alcuni servi incaricati di rifornirsi presso un vicino più fortunato, oppure li si mandava nelle zone dove regnava l’abbondanza. Per munirli di denaro, il feudatario faceva fondere il vasellame alla zecca più vicina, o s’indebitava con l’abate di un monastero dei dintorni. Si instaurava così di tanto in tanto, per influsso dei fenomeni atmosferici, un commercio occasionale che rimetteva in moto, sulle strade o sui corsi d’acqua, qualche saltuaria corrente di traffico. Poteva anche accadere, nelle annate prospere, che si cercasse di vendere altrove l’eccedenza della vendemmia o del raccolto.  non bisogna dimenticare che il sale, condimento necessario alla vita, si trovava soltanto in certe regioni, e bisognava per forza andare a procurarselo. Ma tutto ciò non rappresenta, ripetiamo, un’attività commerciale vera e propria e, soprattutto, non è commercio professionale…  

                 I mercati locali  

A prima vista il numero considerevole dei mercati -che pullulano dall’inizio del IX secolo, e aumentano incessantemente- sembra in contraddizione con la paralisi commerciale dell’epoca. Ma questi mercati sono innumerevoli proprio perché sono insignificanti. Soltanto la fiera di Saint-Denys, presso Parigi (fiera del Lendit) attira una volta all’anno, da molto lontano, oltre che i pellegrini, anche i venditori e compratori occasionali. Ma, se si eccettua questa fiera, si ha soltanto una moltitudine di piccoli mercati settimanali, presso i quali si recano i contadini dei dintorni per vendere qualche uovo, qualche pollo, qualche libbra di lana o qualche àuna di rozza tela fatta in casa (l’àuna era un’antica misura di lunghezza, corrispondente a circa due braccia di panno fiorentino [in Francia a m.1,2 e nel Belgio a m. 0,695]; n.d.c.). Di che specie di transazioni si trattasse si può capire abbastanza bene se si pensa che le vendite erano fatte “per deneratas”, ovvero per quantità che non superavano il valore di pochi denari. Insomma, l’utilità di quei piccoli raduni si limitava  

–      al soddisfacimento dei bisogni familiari della popolazione circostante; non solo, ma, come avviene ancor oggi presso i Cabili, anche  

–      per soddisfare l’istinto di socievolezza che è proprio di tutti gli uomini.  

Era la sola distrazione offerta ad una società inchiodata al lavoro della terra L’ordine con cui Carlo Magno proibiva ai servi dei suoi feudi di “vagare per i mercati” dimostra come quei servi fossero attirati assai più dal desiderio di divertirsi che dal bisogno di concludere affari.  

                 Gli Ebrei  

Per quanto si cerchi, quindi, mercanti di professione non se ne trovano; o meglio, si trovano solo gli Ebrei. Solo questi, a partire dall’inizio dell’epoca carolingia, praticano regolarmente il commercio; e questo è tanto vero che, nella lingua del tempo, i termini Judaeus e mercator erano quasi sinonimi…Il commercio al quale si dedicavano era esclusivamente quello delle spezie e delle stoffe preziose, ch’essi portavano faticosamente dalla Siria, dall’Egitto, da Bisanzio nelle terre dell’Impero carolingio…Quella a cui si rivolgevano i negozianti ebrei era una clientela assai ristretta (aristocratici, clero; n.d.c.). I profitti da loro realizzati debbono essere stati considerevolissimi; ma, a conti fatti, bisogna considerare come accessoria la loro parte nella vita economica di quei tempi. Nulla di essenziale avrebbe perso l’ordinamento sociale con la loro scomparsa.  

                 Le caratteristiche della società dopo il IX secolo  

L’Europa occidentale dunque, dal IX secolo in poi, si presenta sotto ogni punto di vista con l’aspetto d’una società essenzialmente rurale, in cui scambio e circolazione dei beni sono ridotti al livello più basso possibile. Il ceto mercantile è scomparso. Quel che determina la condizione degli uomini è il loro rapporto con la terra. Una minoranza, composta da ecclesiastici o da laici, ne ha la proprietà; al di sotto di questa minoranza viveva una moltitudine di censuari (censuario è chi è costretto al pagamento di un tributo o censo; n.d.c.) che si ripartiva gli appezzamenti in cui erano divise le grandi proprietà feudali. Chi possiede la terra ha anche libertà e potenza: il proprietario è al tempo stesso il signore. Chi ne era privo era ridotto alla servitù: il termine “villano” designava tanto il contadino di un feudo (villa), quanto il servo vero e proprio. Poco importa che, qui e là, in mezzo alla popolazione contadina, ci fossero alcuni fortunati che avevano conservato la proprietà della terra e, di conseguenza, la libertà personale. In genere, la servitù era la condizione normale della popolazione agricola, che era quanto dire: di tutta la popolazione. Certamente c’erano tanti gradi diversi di servitù e, a fianco di uomini che erano in condizione assai prossima a quella dell’antica schiavitù, stavano i discendenti di piccoli proprietari spossessati o volontariamente entrati a far parte della clientela dei grandi.  

Ma il fatto essenziale non era la condizione giuridica, bensì quella sociale: e in base ad essa tutti coloro che vivevano sulla terra del feudatario erano ridotti al semplice ruolo di dipendenti e di sfruttati (anche se, oltre che sfruttati, erano protetti).  

                 Predominio della Chiesa  

In un mondo così rigidamente gerarchizzato, il primo posto, e il più importante era assegnato alla Chiesa, la quale godeva, in quel mondo, di grande autorità sia economica che morale.  

Le sue innumerevoli proprietà superavano in estensione quelle della nobiltà, e alla nobiltà risultava superiore ancor più in fatto di istruzione. Solo la Chiesa, inoltre, disponeva, grazie agli oboli dei fedeli ed alle elemosine dei pellegrini, d’una riserva monetaria, che le consentiva di prestare denaro ai laici bisognosi in tempo di carestia. Infine, in una società che era ricaduta in una condizione di generale ignoranza, essa soltanto deteneva quegli immancabili strumenti di cultura che sono il saper leggere e scrivere; ad essa dunque re e principi dovevano necessariamente ricorrere per avere quei cancellieri, quei segretari, quei “notari”, insomma tutti quegli uomini di penna di cui non potevano fare a meno. Nel periodo dal IX all’XI secolo,  

tutta l’alta amministrazione era nelle mani della Chiesa  

Il suo spirito informava ogni atto amministrativo così come informava tutte le opere d’arte. L’organizzazione delle sue proprietà fondiarie era un modello invano imitato dalla nobiltà; solo la Chiesa infatti disponeva di uomini capaci di eseguire polittici (registri o inventarii dei beni; n.d.c.), di tenere registri contabili, di calcolare entrate e uscite, e, pertanto, di mantenere i pareggi. La Chiesa perciò non è soltanto la grande autorità morale di quel periodo, ma è anche la grande potenza finanziaria.  

                 L’ideale economico della Chiesa  

La concezione ecclesiastica del mondo s’adattava poi perfettamente alle condizioni economiche di quell’epoca, in cui la terra era il solo fondamento dell’ordine sociale. La terra, appunto, era stata data agli uomini da Dio, per metterli in grado di vivere quaggiù in vista della salute eterna.

  Scopo del  lavoro  non  era  di arricchirsi,  ma  di  mante­nersi  nella stessa condizione in cui si era nati, in attesa del passaggio dalla vita mortale a quella eterna.  

L’ideale che tutta la società doveva prendere a modello era quello della rinuncia monastica. Aspirare alla ricchezza significava cadere in peccato d’avarizia; la povertà era un dono d’origine divina, frutto della provvidenza. I ricchi dovevano alleviare la povertà altrui con la carità, e i monasteri davan loro l’esempio. Che mettessero da parte, perciò, l’eccedenza dei loro raccolti, per poi distribuirla gratuitamente, così come le abbazie gratuitamente anticipavano denaro in caso di bisogno….  

L’usura era una cosa detestabile. A partire dal IX secolo la Chiesa riuscì a fare estendere l’interdizione dell’usura, che era già vietata, da sempre, al clero, anche ai laici, e riuscì ad avocare ai suoi tribunali i processi per usura. Ma il commercio in genere non era meno condannabile del commercio del denaro. Anch’esso era pericoloso per l’anima, poiché la sviava dai suoi fini supremi…  

È facile vedere come tali principi si accordino perfettamente con i fatti, e come l’ideale ecclesiastico sia aderente alla realtà. Esso giustifica uno stato di cose da cui la Chiesa è la prima a trarre vantaggio. La Chiesa condannava l’usura, il commercio e l’ideale del profitto per il profitto: ebbene, che cosa poteva esserci di più naturale e opportuno in un periodo in cui ogni feudo bastava a se stesso e costituiva di norma un piccolo mondo chiuso? Basti pensare che solo le carestie obbligavano a ricorrere agli altri e che in tali occasioni ci si poteva esporre agli abusi della speculazione, dell’usura, dell’accaparra­mento, e di tutti gli altri modi possibili di sfruttare il bisogno. Era necessario che tali abusi fossero condannati dalla morale religiosa. Ma poi naturalmente altro era la teoria, altro la pratica e gli stessi monasteri non si peritarono spesso di trasgredire le interdizioni della Chiesa.  

Ciononostante lo spirito ecclesiastico penetrò molto a fondo nelle strutture di quel mondo e occorsero lunghi secoli perché gli uomini si abituassero alle pratiche richieste dalla futura ripresa economica e accettassero senza troppe riserve mentali la legittimità dei profitti nel commercio, del reimpiego dei capitali e del prestito a interesse.” (H. Pirenne, Storia economica e sociale del Medioevo, Garzanti, pp. 13-27)  

 IL BASSO MEDIOEVO: LA RINASCITA DEL SECOLO XI   

                La rinascita dell’anno mille  

“Il secolo XI segna veramente una svolta decisiva nell’evoluzione della società europea, una ripresa di forze che sembravan per sempre scomparse dall’umanità, un definitivo tramonto di forme di vita che ricordavano i secoli bui dell’Alto Medioevo. Non si tratta tuttavia di una esplosione estemporanea di forze e di energie, che nulla nella storia passata facesse prevedere; si tratta invece della normale maturazione di esigenze, di energie che si erano venute lentamente creando nei secoli precedenti e delle quali il risorgere dell’autorità statale sotto Ottone I era stato un chiaro preannunzio.  

Occorre, quindi, vagliare attentamente i singoli fattori che portano a un tale fiorire di nuova civiltà.  

                 La ripresa demografica  

Il fatto essenziale della nuova storia era una vigorosa ripresa demografica. Aveva termine, una buona volta, quel lento ma inesorabile decrescere della popolazione, che soprattutto in Occidente aveva fatto il deserto là dove erano già stati centri pulsanti di vita e che aveva toccato il suo punto culminante nel secolo ferreo dell’anarchia feudale, successivo al crollo dell’Impero carolingio. Tuttavia il castello feudale, con la sicurezza che esso procurava ai villici, permise nelle campagne un regresso demografico minore di quello che si ebbe nei centri urbani e, col secolo XI, un nuovo fiotto di vita prese a circolare nelle vene dell’umanità. Esso non è rappresentato solo da un aumento del livello di natalità, ma è costituito pure dal fatto che intere popolazioni barbariche, un tempo nomadi e predatrici e quindi passive ai fini della vita sociale e della civiltà, si sono installate definitivamente in alcune località, han dato vita a degli organismi statali come la Boemia, l’Ungheria, ecc., e attraverso la conversione al cattolicesimo e i rapporti, non sempre pacifici, col Sacro Romano Impero, son entrate a far parte attiva del complesso civile del tempo.  

Il fenomeno della ripresa demografica è generale: esso si manifesta sia nelle città come nelle campagne e, a seconda della zona in cui si svolge, provoca conseguenze politiche ben diverse.  

Nelle zone rurali, l’aumento della popolazione produce un addensamento demografico attorno al castello, che da semplice roccaforte del signore si trasforma sempre più in un borgo; nelle città, l’aumentata popolazione si raccoglie attorno al palazzo vescovile e costituisce il nerbo principale della feudalità ecclesiastica.  

                 Ripresa della vita economica  

A sua volta, questo fenomeno si risolve in una ripresa della vita economica: il pascolo e il bosco van cedendo il campo all’effettivo lavoro agricolo dell’uomo, mentre la penetrazione di Ottone I nei Paesi slavi apre alla popolazione rurale della Germania nuovi terreni da bonificare. L’attività umana entra nuovamente in lotta con le avversità climatiche e geografiche e si assiste ad una ripresa della bonifica delle terre paludose, della regolamentazione dei fiumi, ecc., cose tutte che l’Alto Medioevo sembrava avesse dimenticato.  

Le città  -soprattutto in Italia, ove, a dire il vero, esse non eran mai completamente morte- ritornano ad essere anch’esse centri di vita economica. Si sviluppa pertanto una profonda trasformazione economica basata sull’economia monetaria e sul commercio a scapito dell’antica economia naturale:  

il sistema chiuso della curtis cede il campo ad un rigoglio di fiere e di mercati.  

Una tale ripresa di attività porta a delle sensibili modificazioni nella condizione delle persone: la servitù della gleba incomincia a cedere il passo al libero colonato, e norme precise, consacrate in patti scritti, limitano il precedente arbitrio del proprietario della terra.  

                 Ripresa culturale  

Con la ripresa della vita economica e dell’importanza della città corre parallela anche una rinascita della cultura; sul piano teologico-filosofico si gettan le prime basi del grandioso movimento della Scolastica (particolare pensiero filosofico cattolico, che fiorì soprattutto nei secoli XII e XIV e trovò il suo massimo rappresentante in S. Tommaso d’Aquino, il cui sistema è stato riconosciuto dalla Chiesa cattolica come dottrina ufficiale) e si ritorna pure allo studio del diritto romano. In questo campo i frutti migliori saranno colti nel secolo XII.  

                Il problema sociale della classe feudale  

Anche se, limitatamente all’Italia, in questa ripresa dell’anno mille sono visibili i primi albori della futura età comunale, pure il termine di “rinascita” non significa fine dell’età feudale in quanto sistema di vita, né del feudalesimo in quanto sistema politico-sociale.  

In questo periodo, tuttavia, la classe feudale subisce gravi crisi.  

–  La prima di esse, che potrebbe esser detta orizzontale, è prodotta dalla lotta tra la feudalità laica e quella ecclesiastica al tempo degli Ottoni, alla quale ben presto seguì quella fra la grande feudalità dei vassalli regi, il cui diritto ereditario era stato riconosciuto dal capitolare di Kiersy, e la piccola feudalità dei vassalli minori, ancora priva di tal privilegio.  

–  Di una gravità ancor maggiore è la lotta, che chiameremo verticale, in seno alla grande piramide feudale, che rivela l’esistenza di un vero e proprio problema sociale della classe feudale. Era esso la conseguenza dell’indivisibilità del cosiddetto feudo franco. I cadetti del signore di un feudo, infatti, non hanno diritto alcuno a succedere al padre; su di essi pesa l’incubo del problema del pane quotidiano e non hanno altra soluzione possibile che l’entrare nella chiesa oppure il cercare fortuna nel mestiere delle armi. Audaci, avventurosi, capaci di ogni brutalità, questi cadetti danno vita all’istituto della Cavalleria e costituiscono quasi un precorrimento dei mercenari del nostro XVI secolo; passano dalla dipendenza di un signore a quella di un altro, sperando sempre una ricompensa e fors’anche un’investitura e non  raro il caso che, stanchi di far guerra per gli altri, adoperino le armi a loro diretto pro’ in imboscate e ladrocinii.  

Su questa massa poco raccomandabile e vera piaga sociale dell’età post-carolingia, ha tuttavia una grande presa la Chiesa. Questa, che attraverso la figura del vescovo-conte si era anch’essa feudalizzata, ha saputo fare opera di alta trasformazione sociale informando dei suoi propri ideali la Cavalleria. Con l’XI secolo è ben visibile un ingentilirsi dei costumi e della vita dei cavalieri e la Chiesa dà alla cerimonia della vestizione del cavaliere un senso e una portata squisitamente etici e religiosi. La Chiesa agisce pure nel mondo feudale con “la tregua di Dio”, o forzata sospensione delle armi nei giorni festivi. Da predone che era il cavaliere si trasforma, o almeno tende a trasformarsi, nel protettore dei deboli, delle vedove e degli orfani.  

La stessa fame di terra che agita questi cadetti del mondo feudale viene inquadrata e regolamentata in tutto un vasto fenomeno di riscossa e ripresa della cristianità sugli infedeli, e ciò ebbe il merito, fra l’altro, di aprire una valvola di sicurezza nel congestionato organismo della feudalità.  

Le crisi del secolo XI, pertanto, si riducono a crisi interne nel sistema feudale e non sono crisi del sistema stesso; ciò spiega come il feudalesimo, se non in Italia, almeno negli altri Paesi abbia avuto vita rigogliosa per almeno altri tre secoli.  

                 L’azione della Chiesa nell’XI secolo  

Anche la Chiesa, dopo il mille, si rinnova: il suo corpo, ormai millenario, è pervaso da nuove forze prodigiose, protese verso una riscossa spirituale.  

L’età successiva alla disgregazione dell’Impero carolingio era stata dura anche per la Chiesa e ne avevan ricavato motivi di corruzione e di mondanizzazione le singole membra come pure il suo capo visibile: il papato era divenuto preda di potenti famiglie dell’aristocrazia romana e l’organizzazione episcopale aveva perso sempre più il suo carattere sacerdotale per assumere quello politico con l’investitura feudale. La politica della dinastia sassone aveva aggravato la crisi: la sua alta mano sull’elezione pontificia era stata, certo, benefica imponendo un supremo potere regolatore nella lotta delle avverse famiglie aristocratiche; ma la creazione di una feudalità ecclesiastica aveva gravemente distolto dalle cure pastorali il corpo episcopale e lo aveva fin’anche inquinato con membri indegni. Ormai il vescovo simoniaco o concubinario era la normalità.  

A una tale situazione reagirà la Chiesa nell’XI secolo con estremo vigore” (A. Saitta, Il cammino umano, vol. I, pp. 130-137).  

L’impulso riformatore venne dal monastero di Cluny (movimento cluniacense), che poté sfruttare, contro l’ostilità dei vari vescovi-conti, l’autonomia concessagli dal papato con la Commendatio Sancti Petri, che assicurava alla casa madre e ai numerosissimi monasteri ad essa affiliati l’immunità dall’ordinaria giurisdizione vescovile, facendo dipendere l’abate direttamente dalla Santa Sede.  

“Non era però solo Cluny ad agitare il problema della riforma e a suscitare questo risveglio spirituale: in Italia, sul finire del secolo X, si era sviluppata con San Nilo una corrente ascetica e che si diffonderà al di là delle Alpi facendo sorgere in Francia, accanto al movimento cluniacense, le nuove regole e istituzioni monastiche dei certosini e dei cistercensi. Degli ideali religiosi di questi ultimi, sorti nel 1098, banditore eloquente fu San Bernardo di Chiaravalle.  

Sotto l’azione di questo risveglio monastico larghi strati popolari abbracciano l’esigenza di una purificazione della Chiesa e trovano i loro portavoce in movimenti ereticali o semiereticali, come quelli dei patari e dei catari: questi ultimi costituiscono una reviviscenza dell’antica dottrina manichea dell’originario dualismo fra il bene e il male e ben presto verranno messi al bando della cristianità; i primi invece non si occupano del problema teologico e costituiscono piuttosto i campioni zelanti di una purificazione dei costumi. Entro la cerchia delle mura cittadine la vita del vescovo-conte incomincia a divenir difficile: stanno a provarlo i tumulti popolari svoltisi a Milano sotto la guida di Anselmo da Baggio contro il vescovo simoniaco e l’espulsione da Firenze del Mezzabarba, anche egli vescovo simoniaco.  

Si trattava, dunque, di un’esigenza largamente sentita e, all’inizio, Chiesa e Impero non furono in disaccordo sulla necessità di provvedere alla riforma: si trovò, anzi, un imperatore, Enrico III di Franconia (1039-1056), che se ne farà l’assertore convinto; ma, allorché il moto, irrobustitosi, mirò ad eliminare l’ingerenza imperiale nell’elezione pontificia, non fu più possibile mantenere l’accordo e si giunse a quella grave lotta, che è passata alla storia sotto il nome di lotta per le investiture.” (A. Saitta, Il cammino umano, vol. I, pp. 138-139)  

                 Il Comune e la rinascita del secolo XIII  

“Avvenimenti come la lotta per le investiture e il movimento delle crociate accelerarono l’intimo processo di disgregazione del mondo feudale ed influirono non poco sulla realizzazione di quel nuovo tipo di civiltà comunale che dominò in Europa dal XIII al XIV secolo.  

L’incessante pullulare di Comuni in questo periodo fu un fenomeno largamente europeo e trovò il primo suo germe in una trasformazione economica conseguente al risveglio avvenuto con l’XI secolo. Nei secoli prece­denti, infatti, l’Europa aveva subito un processo di semplificazione economica, essendosi ogni attività limitata al campo agricolo e ad una economia dì consumo e non di scambio; la città aveva avuto solo una funzione puramente difensiva contro le scorrerie dei barbari. Ora invece ac­canto all’agricoltura risorge e si sviluppa una vasta attività commerciale dalla tipica economia a denaro: la vita dell’Europa pulsa di nuovo lungo le antiche strade romane e i fiumi navigabili, si manifesta soprattutto in Italia e nelle Fiandre, e trova il proprio centro nella città, non più semplice fortezza bensì mercato e centro di scambio. All’inizio il mer­cato si tiene all’aperto ed assume un carattere più che altro di fiera (famose le grandi fiere annuali della Champagne); successivamente acquista una figura sempre più stabile e viene ad incunearsi entro l’ambito della cinta cittadina. Il rigoglio economico genera un intenso processo di differenziazione della città dalla campagna che non si limita solo al campo economico, ma investe anche quello sociale, giac­ché crea un vasto ceto di mercanti e di artigiani non più soggetti a vincoli di natura feudale: la vita cittadina rende libere le persone (« l’aria delle città fa liberi », sostiene un principio giuridico di quei tempi).  

Tale evoluzione della città porta assai presto i cittadini ad associarsi per garantire meglio i propri interessi e rea­lizzare con maggiore sicurezza la propria attività. Attraverso questa associazione sorge il Comune. È un processo naturale e spontaneo, che è impossibile ricondurre a pre­cedenti istituzioni germaniche (gau [1]) o romane (municipium [2]) e che assume delle forme svariatissime, ognuna delle quali è inconfrontabile con l’altra. In realtà, nella descrizione del Comune, è impossibile ser­virsi di un tipo unico, essendo ciascuno un’entità a sé ed avendo ciascuno una propria storia. Così, i Comuni dell’Inghilterra, della Francia setten­trionale e dell’Italia meridionale ebbero uno sviluppo assai minore che non i Comuni della Germania, della Provenza e soprattutto dell’Italia centro-settentrionale: nella prima zona poi si ebbe un distacco nettis­simo fra città e campagna, laddove nella seconda tale distacco fu assai meno sensibile. Comunque, per comodità, si possono distinguere tre tipi di Comuni:  

–  il Comune cittadino, che in generale si sviluppa all’ombra del potere esercitato dai vescovi;  

–  il Comune di contado, che deriva dal castello feudale;  

–  il Comune rurale, che sorge attraverso l’associazione degli agri­coltori non liberi che, opponendo resistenza ai proprietari, riescono a li­berarsi dai vincoli economici e giuridici che li legano ai signori feudali.  

Le caratteristiche costanti che si ritrovano poi nel sorgere dei varii comuni sono la coniuratio [3], ossia un patto interno che vincola tutti i membri del Comune; il carattere volontario giurato di tale patto; e il fatto di essere, all’origine, una associazione privata. La coniu­ratio pertanto lega solo quelli che vi hanno spontaneamente aderito e il Comune non coincide con l’ordinamento giuridico della città, che conserva intatta la sua orga­nizzazione pubblica, feudale o vescovile o imperiale. Ben presto però il Comune si allarga al punto da coincidere con la città stessa; allora dal Comune privato si passa al Comune pubblico, deten­tore ormai della sovranità politica di fatto, se non di diritto. Sovranità di fatto, perché l’ordinamento me­dievale sussiste sempre in pieno e con la sua concezione universalista non lascia ancora posto ad una esistenza legittima di Stati superiorem non recognoscentes (Stati che non riconoscevano una sovranità superiore): si ha così il tipico istituto medievale dell’autonomia, che ammette l’esi­stenza di una sovranità superiore, quella dell’Impero, riconosciuta effet­tivamente dai Comuni, mercé il pagamento di determinati tributi.  

 L’atteggiamento ostile delle classi privilegiate contro il Comune può ben co­gliersi in questa pagina di Guibert de Nogaret, nobile ed abate nello stesso tempo:  

 « Il clero con gli arcidiaconi e i nobili, spogliati dal popolo del diritto di ri­scuotere le tasse, danno loro mercé ambasciatori l’opzione e la facoltà, mediante un prezzo proporzionato, di fare un Comune: Comune, nome nuovo, nome più di ogni altro detestabile, giacché tutti coloro che sono sottoposti all’imposta si affran­cano dalla servitù che essi devono per costume ai loro signori pagando una sola volta nell’anno; e se essi peccano contro il diritto, se la cavano con una penalità legale e sono loro risparmiati gli altri censi, che si ha l’abitudine di far subire ai servi ». (Guibert de Nogaret, De vita sua, Paris 1907, p. 156).  

 Lamentele di rappresentanti di classi al tramonto! Ad esse contrapponiamo la parte centrale del documento con il quale, nel 1257, il Comune di Bologna pro­clama liberi tutti i servi della città e della diocesi:  

 « Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso [giardino] e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’uomo misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito, contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; così l’uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito [nella schiavitù] ebbe pietà e mandò il Figlio… affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci resti­tuisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce, col beneficio della manumissione alla libertà alla quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.  

Considerando ciò la nobile Città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato, pagando in danaro, tutti quelli che ha trovato nella città e dio­cesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitare nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi ». (Trad. di G. Pepe)  

                 L’evoluzione organizzativa del Comune  

Il Comune non fu opera, o per lo meno non fu opera esclusiva, della borghesia: esso ebbe per lo più origine aristocratica, come è dimostrato chiaramente dal sorgere del Comune di Milano, ove accanto alle forze po­polane non poco influirono le forze dei milites secundi [4] in lotta contro Ariberto e i vassalli maggiori.   

Il Comune  – una volta costituito –  presentò varie classi sociali:  

–  quella aristocratica costituita da pochi capitanei [5]  e da molti milites secundi,  

–  quella dei semplici cives che si divisero fra popolo grasso, o complesso di mercanti, e popolo minuto dei piccoli artigiani, e infine  

–  quella degli abitanti del contado, privi di veri diritti politici.  

La distinzione di queste varie classi influì nell’evoluzione organizzativa del Comune, che conobbe in un primo tempo il governo consolare [6] e successivamente quello podestarile [7].   

Al vecchio tipo di Comune privato, costituito dall’Arengo o par­lamento di tutti coloro che sono vincolati dalla co­niuratio e da alcuni boni homines incaricati di dirigere l’associazione, ben presto si sostituisce una regolare magistratura, i cui titolari sul finire dell’XI secolo ebbero il nome di consoli (in Italia essi comparvero per la prima volta a Pisa nel 1085). Essi furono di numero assai vario (in generale due o quattro, ma a Milano raggiunsero perfino il numero di venti): in un primo tempo, furono l’espressione del monopolio di poche famiglie, che costituivano il primo nucleo cronologico dell’associazione comunale; successivamente, divennero una vera e propria magistratura collegiale, control­lata dal consiglio maggiore (o consiglio grande) per gli affari generali e dal consiglio minore (o consiglio di credenza) per gli affari riservati. Questi due consigli da allora sostituirono tacitamente il vecchio Arengo generale. I consoli amministravano la città e in tempo di guerra comandavano l’esercito; in un primo tempo ebbero anche poteri giudiziari, ma ben presto questi vennero affidati a magistrati speciali detti consoli de placitis.   

Il passaggio al governo di tipo podestarile è preceduto da una tra­sformazione economico-sociale interna al Comune stesso: questo fino ad ora è stato il teatro d’azione dell’aristocrazia cittadina  legata in consorterie, ma col XII secolo lo sviluppo economico e mercantile giunge a tal punto che la classe dei mercanti, degli imprenditori e degli artigiani finisce col sommergere del tutto la vecchia classe feudale. La potenza di questi nuovi protagonisti della storia comunale è assi­curata in particolar modo dalle corporazioni o arti, ossia unioni economico-professionali costituitesi per salvaguardare i diritti dei propri aderenti nel mercato e che finirono per regolare tutta la produzione manifatturiera ed industriale. Tale evoluzione economica e corporativa causò ben presto delle lotte con le consorterie nobiliari: il governo consolare si rivelò allora non più idoneo al proprio compito di giustizia e col XIII secolo comincia a scomparire cedendo il posto ad un magistrato forestiero, non legato alle fazioni cittadine: il podestà, nominato generalmente per un anno ed assommante in sé le funzioni giudiziaria ed esecutiva. È questo il periodo podestarile del Comune.  

 Giovanni Villani, cronista fiorentino morto nel 1348, così narra la elezione del primo podestà a Firenze:  

 «Nelli anni di Cristo 1207 i Fiorentini ebbono (= ebbero) la prima signoria forestiera, che infino allora s’era retta la città sotto signoria di consoli cittadini de’ maggiori e migliori della terra, col consiglio del senato, cioè di cento buoni uomini; e detti con­soli al modo di Roma tutto guidavano, e governavano la città, e rendeano ragione, faceano giustizia, e durava loro ufficio un anno. E erano quattro consoli, mentre che la città fu a quartieri, per ciascuna porta uno; e poi furono sei, quando la città si partì (fu divisa) a sesti; ma li antichi nostri non faceano menzione di tutti i nomi, ma dell’uno di loro dì maggiore stato e fama, dicendo: al tempo di cotale console e de’ suoi compagni. Ma poi cresciuta la città di gente e di vizi e facendosi più male­ficii, sì (così) s’accordarono per meglio del Comune, acciocché i cittadini non avessero siffatto (tale) incarico di signoria, né per prieghi (preghiere, e quindi richieste personali con concessione di favoritismi), né per tema (timore), o per disservigio, o per altra cagione non mancasse la giustizia, si ordinarono di chiamare uno gentile uomo d’altra città, che fosse loro podestà per uno anno, e rendesse le ragioni civili, co’ suoi collaterali e giudici, e facesse le esecuzioni delle condennagioni (condanne) e giustizie corporali.  

E ‘l primo che fu podestà in Firenze fu nel primo anno Gualterotto da Milano, e abitoe (abitò) al vescovado, imperciò che (per il fatto che) ancora non avea palazzo di Comune in Firenze ». (Giovanni Villani, Istorie, V 32).  

                 Il Comune in Italia   

Il movimento che portò al sorgere del Comune fu, al pari del feuda­lesimo, vasto ed abbracciò buona parte dell’Europa. Ma, a seconda dei Paesi nei quali si sviluppò, ebbe intensità varia; scarsa e comunque tarda e più lenta in Inghilterra e in Francia, ove pochi furono i Comuni che conob­bero tutta la curva evolutiva sopratracciata e i più si limitarono alla conquista di alcune garanzie o libertà senza identificarsi con un orga­nismo politico e sovrano; alquanto più vigorosa in Germania. La zona invece di massima fioritura e sviluppo del Comune furono le Fiandre e l’Italia centro-settentrionale.  

In Italia, il movimento comunale si delineò dapprima nella pia­nura padana. Milano, favorita anche dalla distru­zione di Pavia, compiuta nel 1004 dalle soldatesche di Enrico II, assurge a un vero primato sull’intera regione; e, nelle lotte di Lanzone contro l’arcivescovo Ariberto prima e poi contro Enrico III, sviluppa il primo germe di organizzazione comunale. Il Carroccio è già il simbolo di questa nuova realtà politica. Nell’Italia centrale, invece, il moto comunale si presentò alquanto più tardi: al suo spontaneo fiorire si opponeva infatti la presenza del forte marchesato di Toscana. Solo con la scomparsa di Matilde e la devoluzione dei suoi beni alla Santa Sede 1115), si crearono le condizioni oggettive per un affrancamento delle varie città; la lunga contesa fra il papato e l’impero per i beni matildini favorì, come era spesso accaduto, il loro sviluppo verso l’autonomia comunale.  

Un nuovo balzo in avanti nelle rivendicazioni e nello sviluppo dei Comuni si ebbe con la morte dell’imperatore  Enrico V (1125). Estintasi con lui la casa di Franconia, l’impero fu sconvolto da cinque lustri di ­aspre contese dinastiche, che lo costrinsero a mantenere una posizione passiva di fronte allo sviluppo comunale. Contro Federico di Hohenstau­fen, indicato da Enrico V morente quale suo successore, prevalse il vec­chio duca di Sassonia, Lotario II di Supplimburgo (1125-1137), cui rivolte di principi resero la vita dura. Egli fu costretto a dichiararsi vassallo della Santa Sede per i beni matildini; nel 1136 scese in Italia per aiutare il papa Innocenzo II contro i Normanni, ma non ottenne alcun risultato. Ancor di più l’Italia fu trascurata dal successore Corrado III di Svevia, che ebbe sulle spalle l’interminabile lotta fra guelfi e ghi­bellini (così si chiamavano i partigiani rispettivamente della casa di Baviera, da Welf suo capostipite, e della casa Hohenstaufen o di Sve­via, da Weiblingen, avito castello di Corrado III) e finì di consumare le scarse sue forze in Oriente, nella seconda Crociata.  

Tale lunga assenza di autorità imperiale in Italia accelerò notevol­mente il processo di sviluppo dei Comuni (ormai, il feudalesimo è forte solo in zone del Piemonte e del Trentino) i quali usurpano sempre nuovi diritti già spettanti all’Impero, come ed es., il batter moneta.  

Nel  1143, approfittando della costante assenza di Corrado dalla scena politica italiana, il Comune fa la sua comparsa anche a Roma: una rivolta ca­pitanata da Giordano della famiglia dei Pierleoni cacciava in tal anno la rivale famiglia dei Frangipani e instaurava l’autonomia comunale contro l’autorità pontificia restaurando il Senato ed abolendo il potere temporale dei papi. Il pontefice Lucio II morì nell’assalto del Campi­doglio, ove si erano asserragliati i ribelli, e il successore Eugenio III (1145-1153) fu costretto a ritirarsi a Viterbo. Sorgeva cosi il Comune di Roma, che doveva divenire assai presto teatro del programma riformatore di Arnaldo da Brescia.  

                 La civiItà comunale  

Il sorgere dei Comuni da un lato e le conseguenze delle crociate dall’altro finiscono col portare a completa maturazione nel XII secolo, in Italia e nell’Europa, tutto quel risveglio economico, sociale, reli­gioso, culturale e artistico, che già si era preannunziato un secolo prima. È un periodo questo di grande benessere economico, in quanto il dissoda­mento di terreni incolti intorno ai Comuni rurali produce grossi bene­fici ai proprietari terrieri, l’aumento delle costruzioni navali nei Comuni marittimi causa la ricchezza degli armatori e dei mercanti, e l’aumento della produzione artigiana nei Comuni cittadini determina l’ascesa delle classi popolari. L’aumento della ricchezza innalzò il tenore di vita e produsse il lusso e sviluppò – specie in Italia – una nuova attività, quella bancaria. Della florida situazione italiana la più chiara prova si ha nella diffusione della moneta coniata nelle città italiane (il tarì di Amalfi circolò nel Levante ancor prima dello zecchino veneziano, co­niato nel 1284; il fiorino di Firenze, coniato nel 1252, fu per molto tempo la valuta di scambio di Francia e Germania). Oltre questo rigoglio eco­nomico, il secolo XII presenta poi:  

–  un movimento religioso-spirituale, di cui si dirà oltre (pp. 198, 206);  

–  un movimento culturale che si afferma attraverso i volgari e la creazione di poemi nazionali come la Chanson de Roland in Francia, il Cid in Spagna, i Nibelunghi in Germania, e che trova il proprio centro nelle Università, la più antica delle quali è quella di Bologna seguita da quelle di Parigi e di Oxford, che sorgono sulla tipica tendenza associa­tiva del secolo come corporazioni di studenti (goliardi). Esse si ren­dono assai presto famose per l’insegnamento della teologia, della fi­losofia (Sorbona), della medicina (Salerno), ma soprattutto del diritto civile e canonico. Così in questo risveglio culturale si trovano i germi teorici della nuova lotta che si prepara fra Impero e Chiesa: il maestro bolognese Irnerio e i suoi discepoli (i glossatori [8] Martino, Bulgaro, ecc.) sono coloro che riscoprono il vecchio Corpus iuris giustinia­neo e la concezione assoluta del potere imperiale, che gli Hohenstaufen faranno propria; Graziano con la sua Concordia discordantium cano­num è colui che stende il primo codice di quel diritto canonico, su cui Innocenzo III, un papa che svilupperà le idee di Gregorio VII, fonderà le proprie pretese;  

–  un movimento artistico, che crea il possente stile romanico.  

(A. Saitta, Il cammino umano, vol. I, pp. 160-167)  

LETTURA 

 Il sapere fantastico e simbolico 

Volendo rintracciare una caratteristica di fondo che sia duratura e diffusa nella cultura medievale, possiamo forse individuarla in un’attitudine rivolta a interpretare più che a osservare il mondo. Naturalmente l’assenza di un sapere preciso è un dato storico comune a tutte le epoche prima della nascita della scienza moderna (secolo XVII). È tipica però del Medioevo una spiccata propensione al sacro e al magico. Dove gli studiosi moderni vedono una cosa o un fenomeno da indagare, gli uomini del Medioevo generalmente vedevano segni: indizi e manifestazioni di presenze e forze segrete, di cui bisognava decifrare le intenzioni. Questo aspetto culturale è stato messo in luce soprattutto dagli sto­rici (Bloch, Le Goff, Duby) che si sono specializzati nello studio delle mentalità collettive: essi hanno collegato la mentalità (idee e valori, abitudini, pratiche di vita, credenze, comportamenti, ecc.) con la realtà, con la struttura materiale dell’epoca stessa. Per esempio: fa parte della mentalità la tendenza a interpretare carestie e pestilenze come segni dell’ostilità di Dio pro­vocata dai peccati degli uomini, una tendenza che ri­scontriamo tanto nelle testimonianze intorno al Mille quanto in quelle più tarde, di storici e narratori del Trecento; ma questa fantasia punitiva ha le sue radici nel fatto reale che pestilenze e carestie erano ricor­renti, imprevedibili, inspiegabili. 

Dunque si sommavano insieme due elementi: l’impre­cisione e ristrettezza delle conoscenze (di storia, geo­grafia, fisica, medicina, economia, ecc.) e il forte biso­gno di dare un significato agli eventi. Questo intreccio produsse effetti in vari campi e trovò espressione in vari modi. 

– Ci fu una straordinaria ricchezza di invenzioni fan­tastiche: leggende, agiografie, fiabe, personaggi ecce­zionali (santi o guerrieri), creature meravigliose e mo­struose, come gli angeli e i demoni che vengono raffi­gurati nella scultura ornamentale romanica e gotica, o come il mostruoso villano, simile a un diavolo, che i cavalieri dell’Ivano (il romanzo di Chretien de Troyes) incontrano nella foresta. La foresta stessa, oltre a essere una realtà estesa nel paesaggio dell’epoca, fu un’idea, un mito: luogo di rifugio e di solitudine, oppure di avventure e incontri inaspettati. 

– Grazie alle interpretazioni allegoriche si trovarono significati riposti, riconducibili all’ottica cristiana, an­che nei testi della cultura antica, biblica e greco-latina. 

– II sistema di pensiero si orientò verso la ricerca di analogie, vale a dire di somiglianze tra diversi ordini di oggetti ed esperienze. Un caso tipico fu la commi­stione tra aspetti della natura e valori morali o reli­giosi: per esempio, l’alto e il basso in natura, il colle e la valle, diventano facili simboli di ascesa e caduta morale; il sole illumina come la grazia divina, ecc. Le analogie permettevano di individuare ovunque con­nessioni e significati. Un filone particolarmente ricco si sviluppò intorno al simbolismo degli animali: le ca­ratteristiche fisiche e il comportamento dell’animale (e spesso si trattava di un animale inesistente: un drago o un unicorno) assumevano significati morali, come avviene in molti bestiari e nelle agiografie, o anche d’altro genere, come nel Bestiario d’amore, del se­colo XIII, che accoglie i nuovi valori della cortesia elaborati e divulgati dopo il Mille. 

– Infine, avvenne anche il procedimento inverso: non solo si cercavano i significati nelle cose, ma si costrui­vano gesti e oggetti, comportamenti e parole che non andavano intesi alla lettera, realisticamente, ma in senso simbolico. Gli esempi, in questo campo, potreb­bero essere numerosissimi. Pensiamo ai casi più rap­presentativi: i gesti rituali connessi con le gerarchie sociali, rigidissime, e con le cerimonie religiose; la co­dificazione minuziosa dei comportamenti cavallereschi; l’uso della figura femminile, nella poesia trobadorica, come di un segno che rappresentava, al di là della don­na, la somma delle aspirazioni psicologiche e sociali di individui e gruppi: gioia, sicurezza, nobilitazione, per­fezionamento interiore. 

 Modelli culturali e letterari 

Nel mondo medievale la realtà sociale e politica era caratterizzata dalla frammentazione, dai particolarismi, dall’assenza o dalla debolezza dell’autorità centrale, dal prevalere dei diversi interessi privati, dalla presenza di masse anonime legate al lavoro della terra, da una diffusa circolazione di figure irregolari: eremiti, giullari, chierici vagabondi, contadini che fuggivano dalla campagna trasferendosi in città, predicatori, eretici, poveri. Una società disomogenea. Invece le espressioni della cultura scritta, essendo prodotte e circolando all’interno di cerchie ristrette e socialmente elevate, hanno la caratteristica di apparire, nei loro tratti fondamentali, molto omogenee. Nella letteratura delle origini, ancora limitata (rispetto a quella dei secoli successivi) a un piccolo numero di modi espressivi e di opere, trova un buon campo di applicazione la nozione di modello, inteso come un insieme coerente di aspetti che hanno la prerogativa di mantenersi costanti, pur nella varietà dei casi specifici, e di avere quasi il valore di una norma a cui i singoli autori si attengono. Si tratta di modelli culturali, cioè di «visioni del mondo», dai quali derivano modelli di comportamento e modelli letterari. 

Possiamo individuare un modello culturale (che si forma nell’Alto medioevo) di ispirazione ecclesiastica, quindi un modello culturale laico, aristocratico-feudale e, successivamente, cavalleresco-cortese. Tra queste concezioni si possono rilevare momenti di intersezione, e precisamente: 

– un’idea del mondo che è contemporaneamente sacrale ed eroica (in senso feudale); 

– un’idea del mondo che è contemporaneamente aristocratica (sempre in senso feudale) e cavalleresca. 

La prima è riconoscibile soprattutto nell’epica rappresentata dalla Canzone di Rolando, mentre la seconda si esprime nella poesia lirica dei trovatori e nei romanzi cavallereschi. Sono modelli culturali chiusi, fondati su un’elabora­zione di valori sentiti come esclusivi e sulla netta con­trapposizione a quanti stanno al di fuori: nella visione del mondo sacrale ed eroica la contrapposizione (o fron­tiera) è tra cristiani e non cristiani; nella visione del mondo aristocratica e cavalleresca la contrapposizione è tra cortesi e villani. Le opere letterarie che nascono all’interno di tali modelli presentano un’area di temi e motivi in comune: per esempio, tutte le canzoni di le canzoni di gesta celebrano la guerra come impresa collettiva a sostegno e onore del lignaggio  (la « comunità di sangue », che è la forma particolare in cui veniva conce­pita la famiglia nella società aristocratica); tutte le poesie e i romanzi rappresentano in modi e con parole simili i comportamenti dei cavalieri. I conflitti e i con­trasti di interesse che attraversavano in concreto la realtà sociale trovarono espressione nelle opere della letteratura per lo più in forma non esplicita, ma allu­siva. Così nell’epica intravediamo, accanto alla storia di Rolando, in cui si conciliano l’ideale guerriero e quello religioso, altre e diverse storie: ribellioni di vassalli, guerre di rapina, figure di guerrieri forse arcaiche e perciò ancora estranee alla sublimazione cri­stiana, come Raul di Cambrai. Così nella tendenziale uniformità della poesia trobadorica le variazioni di le poetiche, Soc. feudale, p. 143; parole e di stili o l’insistenza su alcuni temi (la gioventù, la gioia) rivelano le differenze tra grande e piccola nobiltà ed esprimono le rivendicazioni dei cava­lieri poveri. Ma nell’insieme prevale il modello: l’ade­sione ai valori comuni produce adesione a un modo codificato di scrivere, a un modo codificato di finzione letteraria. Si formano alcune idee-forza o grandi me­tafore destinate a una lunga persistenza nella lettera­tura occidentale: per esempio, l’idea della crociata come guerra santa, che legittima e rende anzi necessario  – in un’ottica di fede – lo sterminio del nemico; il comportamento cavalleresco come proposta di un rapporto tra pari, che è insieme solidale e antagonistico, tipicamente maschile; il tema romanzesco dell’avven­tura e dell’inchiesta, come metafore degli enigmi del­l’esistenza; il tema dell’amore, oggetto stilizzato di rappresentazione, su cui si possono concentrare le ten­sioni sociali e morali, le aspirazioni individuali e col­lettive. I modelli culturali elaborati originariamente nelle lingue d’oc e d’oil si diffusero nel secolo XIII an­che in Italia e furono accolti e trasformati da quella classe dirigente cittadina da cui provennero nel Due e Trecento i principali scrittori. L’insegnamento della 

cortesia fu affidato a trattati come Il Tesoretto di Brunetto Latini, che in parte ripeteva i precetti fissatisi in Francia e in parte se ne staccava, dovendo corri­spondere a un diverso contesto sociale e politico: al vincolo personale tra cavaliere e signore, che imponeva gli obblighi reciproci della fedeltà (da una parte) e della liberalità (dall’altra), si sostituiva il quadro isti­tuzionale della città (nel caso specifico, Firenze), in cui il cavaliere aveva l’obbligo della lealtà verso pa­renti e amici, ma soprattutto verso il suo Comune e la Chiesa. Anche le parole e i loro significati cambiavano: nobiltà, gentilezza furono i nuovi termini su cui si discuteva nell’intento di definire un ideale tipo umano. Nel dibattito sulla nobiltà, che ebbe straordinaria am­piezza tra gli intellettuali dell’epoca in Italia, appare la propensione a diminuire l’importanza della stirpe per esaltare invece le qualità individuali, viste come frutto di una disposizione naturale. II nuovo concetto di gentilezza, la densità dei riferimenti filosofici (maturati nell’ambiente degli studi universitari), le preoccupazioni religiose vive in Italia, data l’influenza capillare della Chiesa) distinguono, anche se con note­voli variazioni individuali, le poesie dello « stil nuo­vo » di Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Dante e costituiscono uno sviluppo e una correzione di quel modello letterario che era stato elaborato dai trovatori, esponenti della cultura cavalleresca e cortese. Ma del modello permangono alcuni tratti essenziali: la crea­zione di un insieme di linguaggio e atteggiamenti esclu­sivi, tali da contrassegnare un gruppo selezionato so­cialmente ed eticamente; la scelta di esprimersi non realisticamente, ma attraverso un atto di finzione lette­raria, che astrae l’amore e la donna dalle situazioni concrete. Nella finzione della poesia uomini che amano e adorano vedono nella donna un segno che li rivela a loro stessi, facendo emergere beatitudine (Dante) o angoscia (Cavalcanti). Anche nell’opera di Giovanni Boccaccio, il maggiore narratore del Trecento, la cul­tura cortese dimostra ancora la sua vitalità: un buon esempio è la novella di Federigo degli Alberighi, nella Federigo degli Alberighi, nella quale l’etica cortese, che celebra la liberalità del donare senza misura fino alla dissipazione di se stessi e delle proprie cose, è messa a confronto con la nuova moralità mercantile, incentrata invece sul risparmio e sul­l’oculata amministrazione del patrimonio. Nel Deca­meron appare compiuto l’adattamento del modello culturale cavalleresco-cortese all’ambiente delle città italiane: il tipo d’uomo esemplare è infatti il cittadino nobile o ricco, che ha assunto i valori e il comportamento signorili; l’estraneo o il nemico è ancora il vil­lano, l’inferiore socialmente ed eticamente, l’uomo rozzo, l’uomo della campagna. 

 La materia cavalleresca: poesia, narrazione, trattatistica 

All’incirca in una stessa epoca, verso la seconda metà del secolo XI, in Francia si cominciò a mettere per iscritto i versi sia composti nella lingua d’oil sia nella lingua d’oc, diffusa nelle regioni meridionali: in lingua d’oil ebbero inizio, con la Canzone di Rolando, i cicli delle canzoni di gesta; in lingua d’oc ebbe inizio, con Guglielmo d’Aquitania, la poesia lirica dei trovatori. I due generi rivelano entrambi un’origine ancora strettamente collegata con una fase precedente di espressione non scritta, ma affidata alla trasmissione orale: le canzoni di gesta, con il loro impianto narra­tivo caratterizzato dai frequenti coinvolgimenti del­l’ascoltatore collettivo («udite, signori», «udite, ba­roni») e dallo stile formulario (presenza di formule riempitive, non necessarie), adatto alla memorizzazione e alla recitazione; le poesie trobadoriche, con la loro natura di « canti » che prevedevano l’accompagna­mento della musica e l’intervento di un cantore pro­fessionista, il giullare. Entrambi i generi presuppon­gono la formazione di un pubblico che li apprezzava: per le canzoni di gesta si tratta probabilmente di quel­l’aristocrazia che era allora impegnata nell’espansione militare delle crociate e che, attraverso la memoria leg­gendaria dei tempi di Carlomagno e dei suoi discen­denti, amava celebrare le proprie imprese e i propri ideali; per i canti trobadorici il pubblico si formò nei castelli e nelle corti, dove si andava elaborando il ceri­moniale dei rapporti tra nobili più o meno potenti, tra i signori che avevano la facoltà di proteggere, do­nare, nobilitare e i membri più giovani delle famiglie, o in genere i cavalieri poveri, che cercavano di otte­nere terre e prestigio grazie alle guerre e ai matrimoni. 

Il modificarsi delle qualità richieste ai protagonisti della finzione letteraria, in un periodo di circa due secoli, segnala i cambiamenti che erano in corso nella realtà sociale. Gli eroi delle canzoni di gesta corrispondono al tipo del guerriero: animato da una cieca furia, come Raul di Cambrai, oppure al servizio di ideali – la fede cristiana, il lignaggio, il signore – che ne giusti­ficano e sublimano il compito di uccisore. È un eroe prode, senza complessità psicologiche; la sua dote prin­cipale è il coraggio fisico. Anche nelle poesie dei trova­tori (per esempio, di Bertran de Born) si trovano gio­iose esaltazioni della guerra come festa crudele (nella realtà storica: un’occasione per far fortuna). Tuttavia il tipo del cavaliere che esse presentano è soprattutto accorto in quell’esercizio dell’arte di amare e di com­porre versi che poteva servire anch’esso a manifestare, in maniera allusiva, il desiderio di elevarsi socialmente. Nel corso del XII secolo al tipo dell’uomo prode si so­stituiva una figura esemplare più complicata, il cui com­portamento era regolato dalla cortesia: essa corrispon­deva a una realtà sociale in cui il servizio di corte ac­quistava via via maggiore importanza. 

La poesia trobadorica ha uno sviluppo fiorente, espan­dendosi anche fuori di Francia, fino all’inizio del se­colo XIV. Molto prima del suo declino si era già affer­mato in lingua nella seconda metà del secolo XII, un nuovo genere di narrazione che accoglieva i pre­cetti della cortesia: al modo epico delle canzoni di gesta era subentrato il modo romanzesco delle lunghe composizioni in versi, nelle quali fu maestro Chretien de Troyes, forse il maggior poeta medievale prima di Dante. Soltanto i romanzi, con il loro intreccio ben or­ganizzato in un insieme coerente di azioni ed episodi, fanno pensare a un pubblico non di ascoltatori, ma di lettori attenti e pazienti. I cavalieri dei romanzi incontrano avventure di armi e di amori, in vicende che fanno largo posto alla magia e agli eventi favo­losi. Si inoltrano in foreste incantate o addirittura, come Lancillotto e Perceval, in regioni irreali, forse fuori di questo mondo; essi si comportano – nell’amicizia, nell’amore, nei duelli – in base a un rigido codice d’onore. Secondo gli storici la figura del cavaliere soli­tario in cerca di gloria personale non è mai esistita realmente; i cavalieri preferivano mettersi in gruppo al servizio di chi poteva assoldarli e i tornei, come le bat­taglie, erano principalmente un buon affare per quanti vi partecipavano (si veda, per esempio, la ricostru­zione di una celebre battaglia nel saggio di G. Duby, La domenica di Bouvines). Tuttavia l’elaborazione cul­turale e letteraria traduce metaforicamente un dato reale: uno strato sociale che tendeva a trasformarsi in ceto chiuso con privilegi ereditari esprimeva una vi­sione della vita come regola, artificio, rito, insomma come forma. La capacità di adeguarsi alla forma, di comportarsi secondo il codice e di padroneggiarne i si­gnificati simbolici diventava il segno distintivo di ap­partenenza al gruppo. Sono del secolo XIII i trattati che descrivono in maniera sistematica il comportamento del cavaliere, a volte sovraccaricandolo (come fa Rai­mondo Lullo) di valori simbolici. 

Intanto aveva inizio un processo di influenza reciproca e di mescolanza tra i vari cicli e le varie materie delle canzoni di gesta e dei romanzi: in particolare, le can­zoni di gesta si adeguavano ai gusti della societa cortese, accogliendo anche i tipici temi romanzeschi (l’amore, il meraviglioso); la materia carolingia, incentrata sulle guerre di Carlomagno contro i Musulmani, si mescolava con quella brettone, sviluppatasi intorno a un luogo ideale, la corte di re Artù (la mescolanza com­pare già nei poemi scritti in lingua franco-veneta nel secolo XIV). 

Si formò così un repertorio di situazioni, personaggi, stereotipi di comportamento, storie d’armi, d’amore, di magia che in seguito confluì – in contesti storici di­versi e perciò con notevoli variazioni nei valori ideolo­gici – nei poemi cavallereschi dei secoli XV-XVI (con Boiardo, Pulci, Ariosto) e infine alimentò l’ultima fase del poema eroico (con Tasso e Cervantes). 

(Remo Ceserani – Lidia De Federicis, Il materiale e l’immaginario: dall’alto medioevo alla società urbana, Loescher Editore, Torino, 1990, pp. 4-11).  

A cura di Amato Maria Bernabei  

Apri e salva: Il Medioevo 


[1] Antica circoscrizione territoriale germanica, comprendente più di un pago (distretto rurale nell’antico territorio di Roma); termine tradotto dagli studiosi con cantone o distretto.  

[2] Nell’antichità, designazione delle città la cui annessione da parte di Roma implicava la perdita della sovranità, ma la conservazione di una notevole autonomia amministrativa.  

[3] L’accordo giurato istitutivo di un Comune.  

[4] Nel linguaggio feudale degli inizi, con la parola milite è spesso indicato il vassallo; milites secundi erano i piccoli vassalli.  

[5] Nome dei feudatari che presiedevano ad una pieve, antica circoscrizione amministrativa dell’Italia settentrionale nel Medioevo.  

[6] Il console era magistrato giudiziario, militare e politico supremo, prima del sorgere del podestà.  

[7] Il podestà fu il magistrato unico che a partire dal secolo XIII sostituì i consoli nel governo dei comuni.  

[8] Da glossa, cioè chiosa (annotazione che chiarisce una parola o un passo di un testo). All’inizio raccoglitori di chiose, di commenti a testi giuridici, sono essi  ora veri e propri commentatori e interpreti delle leggi.  


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *