di Enzo Ramazzina

È noto che le licenze metriche nella poesia accentuativa (aferesi, sincope, apocope, protesi, epentesi, paragoge, tmesi, sistole, diastole ecc.) sono sostanzialmente degli espedienti artificiosi, ma consolidati dai poeti, in parte per rendere i loro componimenti più efficaci ed incisivi, e in parte per rispettare le esigenze di versificazione, o di rima. Ma in cosa consistono, precisamente, le licenze grammaticali e fattuali, e quando si possono applicare?

          Sono trasgressioni non consolidate, ma generalmente accet­tabili. Ci riferiamo, in particolare, a quegli errori di grammatica inten­zionalmente commessi dal poeta, oltre che per giustificare il computo delle sillabe, a volte anche per conferire solennità, o gravità, o ruvidezza al verso, o per istituire raccordi fonici tra i vocaboli, oppure, sem­plicemente, per seguire una moda letteraria, per imitare altri autori, per stupire il lettore…
–                  In tal caso, la libertà di deviazione dalla regola è appunto di tipo grammaticale, come si evince dagli esempi sotto indicati:

                        la qual parea un spirito infiammato
                        (D. Alighieri –  Rime, LXIX)

                       i gnomi e le mandragore
                        (G. Prati – “Il canto d’Igea”)

                        le nubi estive e i zeffiri sereni
                        (U. Foscolo – “Alla sera”)

–                                                       ha sepoltura
                        già vivo, e i stemmi unica laude
                        (U. Foscolo – Dei Sepolcri)

                                 riede alla sua parca mensa,
                        fischiando, il zappatore
                        (G. Leopardi – “Il sabato del villaggio”)

                        co’ baluardi lunghi e i sproni a sghembo
                        (G. Carducci – “Il canto dell’amore”)

                        sotto i ionii cipressi, e de l’acanto
                        (G. Carducci – “Il sonetto”)

                        Scendeva per la pioggia con mormorii freschi un zampillo
                        (G. Carducci – “Sogno d’estate”)

                                                            dolce paese,
                        cui regnarono Guidi e Malatesta,
                        cui tenne pure il Passator cortese
                        (G. Pascoli – “Romagna”)

                        un punto sopra un i” con due sospiri
                        (M. Moretti – “La signora Lalla”)

             Quando, però, l’errore intenzionale del poeta attiene ai contenuti del suo componimento (per esempio, l’autore fa passare per veri e storici circostanze e fatti mai accaduti, o infondati, o improponibili, o irreali, o ricorre furbescamente ad anacronismi, od accredita avvenimenti pale­semente smentiti), per conferire gravità, solennità, o leggerezza al testo poetico, oppure per non cadere in contraddizione con quanto precedentemente scritto, la licenza viene definita fattuale, ovvero – come direbbe un buon dizionario – “riguardante una realtà di fatto, una verità confermata dall’esperienza”.
–          In tale casistica potrebbe rientrare la famosa immagine dell’ùpupa di foscoliana memoria. Si ricorderà, infatti, che Ugo Foscolo, ai versi 81 e segg. de “I Sepolcri”, scrisse:

                        e uscir dal teschio, ove fuggìa la Luna,
                        l’ùpupa e svolazzar su per le croci
                        sparse per la funerea campagna…

             Ora, molti commentatori e critici ritengono che il vate abbia preso un abbaglio, dato che l’ùpupa, in realtà, è il galletto marzuolo, un grazioso uccello diurno con un bel piumaggio colorato, per niente immondo e ghiotto di resti umani in via di decomposizione. Ma se rispondesse a verità che il Foscolo ebbe ad usare quest’espediente al solo scopo di valersi dell’appellativo onomatopeico del volatile, e del suo canto monotono e sgradevole, per produrre nel lettore un effetto pauroso e lugubre, si dovrebbe ammettere che l’errore fu dovuto senz’altro a una licenza poetica di tipo fattuale, peraltro assolutamente riuscita allo scopo [1]. Peccato che la scelta foscoliana sia andata a scapito della buona nomea dell’ùpupa.
–        Ancora un esempio, tratto da “Il Parlamento” di Giosuè Carducci. La poesia, come si ricorderà, termina con questo verso:

                                                                  … il sole
                         ridea calando dietro il Resegone

             Ma poiché, di fatto, dal punto in cui viene descritta la scena, il sole non  tramonta dietro il Resegone, bensì scende dalla parte opposta, dietro le pendici del Monte Rosa, è evidente che l’immagine di cui il poeta si serve non ha altri intenti che quello di rendere solenne la chiusa del componimento.
–         Infine, anche le parole rare, derivanti dalla modifica di normali vocaboli consolidati dall’uso corrente, si possono considerare licenze poetiche, come, ad esempio, “speme”, trasformata da molti autori classici in spene, per mero sfizio letterario, o semplicemente per esigenze di rima:

                         sovra la qual si fonda l’alta spene
                        (D. Alighieri – La Divina Commedia, Paradiso, XXIV)

                         Questo m’avanza di cotanta spene
                        (F. Petrarca – Il Canzoniere, 268)

                                                                 a noi conviene,
                        dicea, fondar dell’Asia oggi la spene
                        (T. Tasso – La Gerusalemme liberata, 3)

                        né si ferma giammai, se non la spene
                        (G. Leopardi – “Frammento”)

            Quanto alle parole inventate, il primato va assegnato senz’altro a Dante. Gli esempi sotto riportati sono tratti, rispettivamente, dalla prima e dalla terza Cantica della Divina Commedia:

                        Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
                        ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
                        qual ella sia, parole non ci appulcro                        rima coniata dall’autore
–                      (D. Alighieri – La D. Commedia, Inferno VII)

                        come fec’io per far migliori spegli
                        ancor delli occhi, chinandomi all’onda
                        che si deriva perché vi s’ immegli                             verbo inventato: significa
–                      (D. Alighieri – La D. Commedia, Paradiso, XXX)                   “diventi migliore”

             Ma le licenze poetiche riscontrabili nel poema dantesco non si possono né censurare né criticare, se non altro perché provengono dal genio di Colui che fu definito, per antonomasia, il “padre della lingua italiana”.

Enzo Ramazzina
La Tribuna Letteraria, Padova, n. 112
IV Trimestre 2013


[1] Il Foscolo quasi certamente s’ispirò a questi versi dell’amico Parini: e ùpupe e gufi e mostri avversi al sole / svolazzavan per essa, e con ferali / stridi portavan miserandi augurii (Il Giorno: la notte, vv. 14-16).

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