Il 13 giugno la Chiesa festeggia uno dei suoi Santi più popolari: Sant’Antonio da Padova. Ricordiamo dunque “il Santo” attraverso un interessante articolo di Enzo Ramazzina, risalente a diversi anni fa. (Nel riquadro, la splendida Basilica del Santo, a Padova)

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A Nord di Padova, appena fuori dal perimetro delle mura, si erge la stazione ferroviaria, ricostruita nel dopoguerra, alle cui spalle s’estende il vasto e popoloso quartiere dell’Arcella. Per raggiungerlo, chi proviene dal centro della città dovrebbe superare il cavalcavia “Borgomagno”, al di sotto del quale transitano i convogli ferroviari.

La località prende il nome da un antico monastero di clarisse, “arcta cella”, che si dice fosse stato fondato direttamente da San Francesco d’Assisi. Il convento originario, eretto intorno al 1220, è andato distrutto, ma si è conservata la celletta di Antonio, sulla quale è sorta una chiesa a lui dedicata, più volte ricostruita ed ampliata, e che attualmente si presenta nell’aspetto assunto nel 1927, ma con i sapienti restauri com­pletati alla fine degli anni ’90.

Per distinguerla dalla grande e più famosa basilica del Santo, questa chiesa (oggi riconosciuta come vero e proprio santuario), pure dedicata a S. Antonio, viene popolarmente chiamata di “Sant’Antonin”. Retta dai Frati Minori Conventuali, lascia il visitatore piacevolmente sorpreso, oltre che per la presenza, all’esterno, della grande statua del Taumaturgo benedicente la città, anche per l’ampiezza e la luminosità della navata, prodotta dal ripristino della tipologia delle vetriate.

Colpito più volte dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, il quartiere dell’Arcella s’è rapidamente ripreso a partire dagli anni ’50, espandendosi da ogni lato con fitte costruzioni condominiali, che hanno lasciato scarso spazio al verde, confinato, per lo più, nei piccoli giardini delle ville private.

In questa località, frate Antonio si dedicò, per alcune settimane, alla stesura dei “Sermoni”. Qui trovò il confratello Luca, del casato dei Belludi, che avevano feudo nell’Alta Padovana, e precisamente a Piazzola sul Brenta. Le famiglie dei nobili e dei ricchi, com’è noto, lasciavano il loro patrimonio al primogenito maschio, avviando gli altri figli alle armi, o alla carriera ecclesiastica: il sistema funzionava contro la dispersione dei beni, ma raramente offriva alla Chiesa buoni sacerdoti. Paolo Scandaletti, nel suo “Antonio da Padova” (Milano, 1981), osserva che “qualunque sia stata l’origine della vocazione di Luca, nel suo caso tutto andò per il meglio, tant’è che finì tra i Beati”.

Con fra Antonio, che in quel tempo era superiore della provincia francescana settentrionale, Luca Belludi strinse un’affettuosa amicizia, diventando il suo aiutante di campo nel secondo soggiorno padovano. Fu colui che, probabilmente, ne raccolse gli ultimi scritti, frettolosamente completati, prima che la morte lo cogliesse. All’Arcella, infatti, ebbero epilogo le sofferenze terrene di Antonio.

 Ma vediamo la cronaca di quel famoso 13 giugno 1231, così come ce la descrivono le prime biografie del Santo.

Dal convento di Camposampiero (dove Antonio s’era rifugiato per un breve periodo di riposo) fino alle porte di Padova, ci sono meno di venti chilometri. Non era certo la bella strada dei nostri giorni. In quel pomeriggio assolato, un carro trainato dai buoi procedeva lungo la via polverosa. Il contadino, proprietario del veicolo, e due frati, camminavano ai lati con volto preoccupato, mentre Antonio, sdraiato sulla paglia ed assorto in preghiera, sembrava indifferente al dolore della malattia e alle scosse prodotte dai ciottoli e dal terreno dissestato. Il triste viaggio durò circa sei ore, anche perché l’attuale cosiddetta “Strada del Santo” non esisteva ancora e bisognava percorrere viottoli e carreggiate interne alla campagna per arrivare alla periferia della città.

Al tramonto, il corteo giunse al sobborgo settentrionale di Padova. Qui incontrò frate Vinoto, che, spinto da sentimenti d’amicizia, o forse perché già informato del collasso del confratello, era partito a piedi alla volta di Camposampiero per avere notizie sullo stato di salute dell’infermo. Vedendoselo davanti pressoché moribondo, intuì che non sarebbe arrivato vivo al convento di S. Maria (“Sancta Maria, mater Domini”), distante ancora qualche chilometro.

Scongiurò i frati di portare il malato nel vicinissimo convento dell’Arcella, dove vivevano in comunità alcuni francescani che prestavano, tra l’altro, assistenza spirituale all’annesso monastero delle Clarisse (“Mo­na­sterium dominarum pauperum”). Vinoto fece anche rilevare che, nell’attraversare la città, la gente avrebbe riconosciuto il Santo e non poca confusione ne avrebbe patito il convento di S. Maria; inoltre, l’infermo sarebbe stato esposto all’importuno accorrere dei visitatori.

Giunto dunque all’Arcella, Antonio, dopo breve riposo, chiese di confessarsi (solo la biografia “Rigaldina”, ad ottant’anni di distanza dagli avveni­menti, parla di S. Comunione, cioè di Viatico). Ebbe ancora la forza di intonare un inno alla Madonna, che cominciava con le parole “O gloriosa Signora…”, ma la sua voce era flebile e spenta. All’improvviso fissò, come estasiato, lo sguardo davanti a sé. Gli chiesero: “Che cosa vedi?”. Rispose: “Video Dominum meum” (“Vedo il mio Signore”).

Allora, un confratello iniziò ad amministrargli la sacra unzione degli infermi. Ma Antonio osservò: “Non è necessario: ho già quest’unzione dentro di me; tuttavia, è cosa buona per me e la gradisco”. Il Santo aprì le mani per ricevere il sacramento; poi le racchiuse, quasi per trattenere il profumo dell’olio. Insieme con i presenti, recitò i sette salmi penitenziali del salterio, che sono i salmi del pentimento, il quale sfocia nell’ab­ban­dono fiducioso alla misericordia di Dio. Seguì circa una mezzora di silenzio e di trepida attesa. Ad un tratto, reclinò il capo e spirò.

Nella “Raymundina”, una biografia posteriore di oltre sessant’anni, si legge testualmente: “Il santo uomo di Dio morì il 13 giugno dell’anno 1231 dell’impero di Cristo. Il suo corpo sembrava di uno che dorme; le sue mani presero un candore che superava la bellezza del colore antecedente; le sue membra non conobbero l’irrigidimento consueto dei cadaveri, ma restarono flessibili a quanti desideravano constatarlo”.

Si racconta anche che, in città, quasi nello stesso istante i fanciulli uscissero dalle case e si spargessero per le vie gridando: “È morto il Santo!”. Questi, in dettaglio, i fatti. E per essi, l’Arcella di Padova fu immortalata nei secoli.

Enzo Ramazzina

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