In un tempo gravido di attaccamento alle cose, incardinato esclusivamente sui criteri dell’economia (o peggio, del mercato), incline a ridurre la verità a misura di soggetto, non sorprende la continua ricerca di una dimensione spirituale, che nessuna religione della materia può soffocare. Ovviamente la bancarella non poteva rimanere insensibile a questa “richiesta”, non poteva non creare prodotti acconci.

 

Di qui il proliferare indiscriminato di “tracciatori” di sentieri dello spirito, di “maestri” della rivendita della “verità”, di padiglioni della New Age (eone dell’Acquario), di astrologie, di esoterismi; di qui gl’insegnamenti ormai triti di una sempre più diffusa e penosa “docenza del metafisico”, che nella sua migliore versione potrebbe essere accolta soltanto nelle vesti di una meditata e sapiente riflessione sulla vita e sull’uomo da proporre come spunto di meditazione e di discussione.

Uno dei comandamenti più ricorrenti di questa “fiera” è quello che esorta a “vivere il presente”. Come se si potesse vivere un passato che non è più o un futuro che non è ancora. Si può vivere, vivere e basta, di una presenza che è già lontana mentre la diciamo, di un flusso di continui frammenti smarriti. A voler essere drammatici lo si può fare nel modo descritto da Gustave Flaubert, che non dà scampo: “L’avvenire ci tormenta, il passato ci trattiene, il presente ci sfugge”; ma si possono vedere le cose anche in modo più realistico e costruttivo, affermare ad esempio con Leibniz che “Il presente è carico del passato e gravido dell’avvenire”. In quest’ottica passato e futuro hanno, nella modalità umana, e dunque a prescindere dalla loro obiettiva, reale esistenza [1], un valore quanto meno pari a quello del presente, di cui sono l’uno il presupposto e l’altro lo stimolo. Il passato è patrimonio insostituibile di esperienza, al punto che potremmo dire, tutti, che siamo il risultato del nostro tempo trascorso. E il futuro è coinvolgente meta, per quanto insicura, verso cui dirigere gli sforzi del nostro vivere presente, confine costante, come si è detto, fra l’attimo trascorso e quello veniente [2].

Vuote appaiono dunque le esortazioni a non indulgere al passato, a non illudersi di futuro. Lo stesso Seneca del protinus vive, vivi subito, osserva che “estremamente breve e travagliata è la vita di coloro che dimenticano il passato, trascurano il presente, temono il futuro:  giunti al momento estremo, tardi comprendono di essere stati occupati tanto tempo senza concludere nulla”. Non è lo stesso che dire: non dimenticare il passato, cura il presente, abbi fiducia nel futuro se vuoi dare sostanza alla tua vita?

Anche il carpe diem oraziano certamente non svaluta la ricchezza dell’avvenuto né la prospettiva del dopo: solo esorta a vivere con intensità (il presente) e a non procrastinare quanto ci è possibile fare subito, ad affidarsi al domani “il meno possibile”.  Domani che, comunque, toglierebbe ogni senso all’oggi se fosse categoricamente rifiutato, svuotando il nostro vivere di ogni proficua fiducia in un qualche fine da perseguire.

Può essere accolta però la critica pascaliana, che credo voglia soprattutto invitare alla misura nell’attenzione da rivolgere ai ricordi ed alle prospettive, per evitare di perdere il contatto con la realtà: “Non ci atteniamo mai al presente. Anticipiamo l’avvenire come troppo lento a giungere, quasi per affrettare il suo corso; oppure ricordiamo il passato per fermarlo come troppo fugace; siamo così imprudenti che vaghiamo nei tempi che non sono nostri e non pensiamo al solo che realmente ci appartiene” (Blaise Pascal, Pensieri, 80). Per quanto sicuramente nostri io considererei gli eventi già vissuti e indubbiamente incerti e da acquisire quelli che ci accadranno. La migliore delucidazione del “vivere il presente” forse proviene dal pensiero della Lubich: “Essere tutti lì, in quell’opera, eliminando ogni altra cosa, perdendo pensieri, desideri, ricordi, azioni… che riguardano altro. Parlare, telefonare, ascoltare, aiutare, studiare, pregare, mangiare, dormire, senza curarci di nient’altro: fare azioni ‘intere’, ‘pulite’, con tutto il cuore, la mente e le forze” (Chiara Lubich. Ogni momento è un dono, Roma, Città Nuova, 2001, p. 89). Ecco allora che l’espressione abusata, addomesticata per il “mercato della saggezza”, acquista valore, nel significato del fare ogni cosa nel migliore dei modi possibili, nel momento in cui si è intenti a farla.

Amato Maria Bernabei

 


[1] “Il tempo non esiste, è solo una dimensione dell’anima. Il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto deve ancora essere, e il presente è solo un istante inesistente di separazione tra passato e futuro” (Sant’Agostino).

[2] «Secondo Aiòn soltanto il passato e il futuro insistono e sussistono nel tempo. Invece di un presente che riassorbe il passato e il futuro, un futuro e un passato che dividono ad ogni istante il presente, che lo suddividono all’infinito in passato e futuro, nei due sensi contemporaneamente. O meglio è l’istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro, invece di presenti vasti e spessi che comprendono gli uni rispetto agli altri il futuro e il passato» (Gilles Deleuze, Logica dei sensi, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 247). Aiòn, dal greco αἰών (tempo), nella mitologia figlio di Chrònos, è l’istante del tempo che mentre accade è già accaduto, quel punto in continuo movimento e continuamente assente che incessantemente divide il passato dal futuro ed è in sostanza il presente sempre assente.

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