(a cura di Amato Maria Bernabei)
Naturalmente chi sa scrivere non è letto, perché l’Olimpo è per gli Dei di carta, mentre la carta è per le penne spente, ma… facili da vendere o “vendute”.
“Il passato è passato”, qualcuno ha sancito, forse illuso di onnipotenza sul presente o per divinante persuasione di un futuro sempre migliore; o forse volendo semplicemente dire che ripensare al tempo trascorso, o rimpiangerlo, è cosa inutile, sterile. Noi siamo, invece, il risultato del nostro passato, unica nostra certezza e unica fecondità, almeno per quello che esso rappresenta in termini di esperienza e di confronto. Allora permettetemi di ripiegarmi, e di tornare ai concerti che erano Concerti, ai libri che erano Libri, alla cultura che era Cultura. Quando mai, mezzo secolo fa, sarebbe potuta apparire nella vetrina di una libreria una copertina come “Noi che… i migliori anni”, di un Carlo Conti qualunque, quasi novello Marcel Proust, per gli illustri tipi della Mondadori? Quando mai un “conduttorino” si sarebbe potuto permettere di “scrivere” un libro, un libro, ripeto, oggetto che ormai la nostra epoca non fa che vilipendere? Un libro, ormai foglio da mercatino, periodico da gossip, non più pagina di laboriosa riflessione, di faticosa e appassionata ricerca della mente, di stupita conquista dell’anima: un libro! Tra Gattuso, Vespa, Vasco Rossi e schiere di pallidi protagonisti del nostro tempo di spettacolo, che hanno già lasciato dietro di sé ancora più pallide righe, e i vari aspiranti letterati, come Paolo Bonolis, i quali “minacciano” che, prima o poi, scriveranno, chi veramente scrive è nell’ombra, defraudato, umiliato.
Torniamo allora ad accendere la luce, ad illuminare qualche scritto che merita di essere letto, a restituire ordine e dignità alle cose.
L’ALLUVIONE HA SOMMERSO… di Adele Costanzo, Premio Racconti nella Rete 2009
L’alluvione ha sommerso le casette delle api, dissero all’Ortolano, che le allevava con pazienza nell’orto lungo il fiume a dieci miglia dalla città bassa. Erano fatte con assi d’abete e l’acqua penetrò nei punti in cui erano unite l’una all’altra con dei chiodi. Gli operosi insetti furono sorpresi mentre lavoravano nettare d’acacia per farne miele e nemmeno l’ape regina si salvò. L’alluvione ha sommerso i vigneti a ovest di Mensuria, dissero al Vinaio, il quale pensò meno male è novembre e il vino novello già spumeggia nelle botti delle cantine in città alta. L’alluvione ha sommerso le piantine di zafferano nel tuo pezzetto di terra fuori porta, dissero al Barbiere. Peccato, perché i fiori violetti stavano già per essere recisi. Lo avrebbe fatto la moglie se fosse uscita di casa sotto la pioggia, quel mattino, per tagliarli prima che si schiudessero, come conviene. Ne avrebbe messo ad essiccare gli stimmi e poi ne avrebbe ricavato la polvere gialla con cui condiva cibi e procurava aborti. L’alluvione ha sommerso l’edicola della Madonna della Vite all’ingresso della città bassa, riferirono al Prete, che immediatamente si segnò. Non è possibile, disse. A quei lineamenti sbiaditi d’incerta appartenenza s’era affidato perché vegliassero in sua vece sulle esistenze in bilico che vi sfilavano davanti, sempre di fretta e di cattivo umore, coi piedi dentro scarpe scalcagnate e i pensieri logori anche nei giorni di festa. L’alluvione sta sommergendo il nostro quartiere, e la collina prima o poi ci cade addosso, disse il Giardiniere alla moglie e ai bambini, preparate il necessario che avverto i vicini. Il fango ha già travolto la casa del Falegname, aggiunse il Fabbro, per cui, insieme agli altri abitanti della città bassa prese le funi e si diresse con fatica verso il luogo del disastro, troppo tardi però, perché dell’abitazione del loro amico non si vedeva più nemmeno il tetto. L’alluvione ha sommerso il ponte fuori città e la casa di campagna è isolata, intanto riferiva il Fattore alla Contessa, in un altro quartiere. Delle mucche e degli altri animali non m’importa, lei rispose, vada come deve andare, ma il cane …. pretendo che tu vada a salvarlo. Correrà seri rischi a tornare indietro, cercò di farla ragionare la sua Migliore Amica, ma lei aggiunse che aveva già perduto la femmina, l’estate scorsa. Credo d’avere perso già abbastanza, perciò concluse. Chi mai può dirlo, l’altra pensò.
L’ alluvione del milleottocentododici, che cancellò la città bassa in poche ore, era stata, checché poi se ne disse, un disastro annunciato. Lo aveva annunciato la sera prima al Prefetto il Guardiano delle Acque, il quale nella sua postazione a poche miglia dall’abitato si guadagnava da vivere guardando il fiume scorrere a nordest. Quel pomeriggio del tre novembre, vedendo l’acqua torbida e ribollente, montò a cavallo e cavalcò sotto la pioggia e sul fango. Giunse in città, ma subito s’accorse che Mensuria aveva smesso di resistere alla pioggia e s’era arresa. I muri delle case, la terra degli orti e dei giardini, la corteccia degli alberi e le loro foglie, la bandiera francese sul pennone, le piume degli uccelli e i vestiti dei passanti avevano fatto del loro meglio per assorbire quanta più acqua potevano, tra le fibre, ma il loro meglio non era stato abbastanza. Allora quella in eccesso, non contenuta, venne ospitata in improvvisate pozzanghere, dalle quali ben presto straripò. Spinta dal peso e da chi sa quale urgenza, puntò quindi alla città bassa giù per le strade in discesa, o scivolando per la collina dove, strada facendo, rubava terra e sassi alle radici. La Mosella ha raggiunto e superato il livello d’attenzione, disse il Guardiano delle Acque quando, bagnato fradicio, arrivò. Me l’aspettavo, rispose il Prefetto, il quale aggiunse adesso è tardi ma domani bisogna intervenire. Così il giorno seguente, a cose fatte, diede ordine di convocare alcune delle persone colpite dal disastro, tutti coloro che avevano voce in capitolo nella gestione dell’emergenza, i notabili, il Filosofo e le autorità. Non è per perder tempo, ma bisogna coordinare gli sforzi nell’immediato e pensare al dopo, spiegò.Si ritrovarono tutti insieme in Prefettura. Avevano i vestiti bagnati dalla stessa d’acqua, ma di fogge diverse, di tessuti differenti e di diversa qualità.
Che tragedia, esordì la Dama di Carità, bisogna organizzare la raccolta di indumenti asciutti, di coperte e di cibo per gli alluvionati. Me ne occuperò io con le mie amiche.
Intanto abbiamo dato loro accoglienza nella caserma, comunicò il Maresciallo della Guardia Nazionale, poi si vedrà.
Palliativi, fece il Geometra, qui bisogna prevenire, è da tempo che lavoro a quel progetto degli argini e dei terrazzamenti, ma nessuno lo ha mai preso sul serio.
C’è poco da prevenire: l’uomo propone, però …, disse il Prete alzando gli occhi al cielo affrescato sul soffitto dove, tra improbabili nuvolette, spuntavano putti grassocci, tralci di viti e un paio di svagate divinità.
Ben detto, ma che disgrazia, ribadì la Dama di Carità, tutto spazzato via …
Io non la penso così, intervenne l’Acquirente di Beni Nazionali, un po’di fantasia e di fiducia in se stessi e le cose cambiano di segno. D’altro canto la zona era davvero degradata: baracche, immondizia, criminalità. Se si costruissero argini per il fiume e terrazzamenti sui fianchi della collina, e guardò il Prefetto, l’intera area sarebbe edificabile. Quante belle villette per i soldati francesi e le loro famiglie, allora .
A quelle parole, come per incanto, la vecchia città bassa un’altra volta sparì: nel fondo d’un qualcosa che scorreva ben più veloce della Mosella e andava molto più lontano. Al suo posto affiorò il profilo d’una bellissima città, nuova e possibile.
E parchi giochi per i bambini, continuò sgranando gli occhi la Dama di Carità.
Che non manchino scuole e biblioteche, ammonì il Vecchio Precettore.
E un ambulatorio, propose il Medico.
E un giardino pubblico con il gazebo per la musica, sognò il Compositore.
E una bella chiesa, pretese il Prete.
E io dove vado, domandò invece il Giardiniere col berretto zuppo in mano, guardando dalla finestra i tetti delle case spuntare a malapena dai gorghi caffelatte.
Da qualche parte andrete, tagliò corto il Prefetto, qualcosa per voialtri sfollati si troverà.
Corro a casa a sistemare il progetto, comunicò tutto contento il Geometra, mi sa che è venuto il tempo che la Mosella capisca con chi ha a che fare, non trovate? Domandò al Filosofo che stava lì distratto, di spalle agli altri, lo sguardo fisso oltre i vetri che la pioggia, a modo suo, lavava. Non so che tempo sia: ho fretta, adesso, scuotendosi dai suoi pensieri quello rispose. Me ne vado anch’io. Voglio farci un romanzo. Ecco che tempo è, almeno per quanto mi riguarda. Tempo di scrivere. Fuori pioveva ancora, ma preso dall’urgenza non badò all’acqua delle strade che gli entrava negli stivali né a quella che, cadendo dalle grondaie e dal cielo, gli incollava i capelli sulla fronte. Entrò in casa e gettò a terra il mantello grondante, poi si precipitò nello studio, mentre la Serva osservava seccata la scia d’impronte che si lasciava dietro. Si sedette alla scrivania e intinse la penna nell’inchiostro. Prima d’appoggiarla sul foglio chiuse un attimo gli occhi affinché le impure tonalità del fango non annegassero nel bianco immacolato della carta. Poi cominciò: “ L’alluvione ha sommerso ….. “. Ma lì finì la sua carriera di scrittore, per il momento almeno. Avrebbe volentieri dato alloggio, nel libro che non scrisse, al pack dei mobili tarlati, al tavolino zoppo, alla credenza dalle ante scardinate con dentro quattro o cinque tazze di coccio. Ma la Mosella aveva già messo a macerare quegli oggetti: sul fondo, a farne torba, in compagnia dell’abbecedario spaginato su cui il Fabbro s’addormentava sillabando, del pennello da barba di setole indurite, della stampa sbiadita dell’Imperatore a cavallo , dell’armonica a bocca un po’sfiatata e d’infinite altre cianfrusaglie (tra cui per qualche istante galleggiò una bottiglia di buon vino di Mensuria, annata del novantasei).
Adele Costanzo
Premio Racconti nella Rete 2009